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Watersnoodramp. Il più grave disastro verificatosi sulle coste olandesi a memoria d’uomo.
Tra la notte del 31 gennaio e le prime luci dell’alba del 1 febbraio 1953 sulle coste olandesi, belghe, inglesi e scozzesi morirono 2551 persone. A questi bisogna aggiungere i naufragi dei tanti pescherecci e l’affondamento del traghetto MV Princess Victoria a largo di Belfast: 133 morti e 40 superstiti.

1835 furono i decessi nei soli Paesi Bassi, soprattutto nella provincia dello Zeeland. 70000 persone dovettero lasciare le loro case. Il sale dell’acqua marina arse il suolo al punto che i terreni agricoli allagati rimasero improduttivi per anni. Annegarono 20.000 bovini, 12.000 suini, 1.750 cavalli, 2.750 ovini e 165.000 polli.
Le cause del disastro
Il disastro fu causato dalla somma di due eventi: un’alta marea primaverile e un ciclone extra-tropicale che provocò una tempesta nel Mare del Nord. Il vento continuò a soffiare a forza 9 per quasi un giorno. Le dighe e le opere difensive dello Zuid-Holland e Noord-Brabant furono spazzate da un’onda che provocò un innalzamento delle acque di 5,6 metri rispetto al livello ordinario del mare.
L’allarme fu lanciato in ritardo dal KNMI, il servizio meteo olandese. Le radio e le stazioni meteorologiche non trasmettevano durante le ore notturne, specialmente di sabato. Le popolazioni coinvolte non furono evacuate e le comunicazioni furono garantite solo dai baracchini dei radioamatori che continuarono incessantemente a parlare tra di loro e con le autorità per giorni e giorni.
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Alle prime luci dell’alba, prima ancora che la marea avesse raggiunto il massimo livello, le sirene nelle città e le campane nei villaggi diedero l’allarme, mentre l’acqua aveva già in parte superato la soglia delle dighe. A Rotterdam, i cui bassi quartieri furono poi allagati, l’allarme, alle tre di notte, fu dato dai topi che scappavano dalle fogne.
La mattina della domenica si profilò una scena spietata, degna di un quadro di Bruegel: famiglie sepolte vive, giovani coppie assiderate sui tetti delle case, padri che vagavano con l’acqua alle ginocchia trascinando i corpi dei figli privi di vita, uomini e bestie che impazzirono vittime di un martirio fatto di acqua, freddo e disperazione. Un nonno riuscì a mantenere per giorni in vita il nipotino lattante nutrendolo con del pane premasticato. Foto e video del disastro sono in esposizione al Watersnoodmuseum di Ouwerkerk.
Il danno complessivo fu stimato in 1 miliardo di fiorini (circa 450 milioni di euro attuali).
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La macchina della solidarietà
Gli olandesi di mobilitarono immediatamente per finanziare il Rampenfonds, il fondo destinato a gestire gli aiuti: il nonnetto H. (‘Opa H. uit O’) lustrò scarpe per giorni in un ufficio postale, le casalinghe di tutto il Paese donarono i propri vuoti a rendere agli scout, in una caserma di Nijmegen vennero preparati migliaia di litri di zuppa da vendere, molti operai devolsero il 10% del proprio stipendio settimanale, a Parigi venne organizzata una partita di beneficenza tra squadre di calciatori professionisti olandesi che giocavano per club stranieri. Le emittenti radiofoniche trasmettevano a reti unificate un programma in cui privati cittadini e aziende potevano pubblicamente dire quanto denaro avessero donato al fondo. Vennero vendute 100.000 cartoline commemorative con un’illustrazione da Eppo Doeve.
La Croce Rossa fu travolta dai contributi – circa 2,7 milioni di franchi – che decise di destinare alla costruzione degli alloggi per gli operai. La Regina Giuliana e la principessa Beatrice visitarono le zone allagate nei giorni immediatamente successivi al disastro.
Anche la risposta della comunità internazionale non tardò ad arrivare. Diversi paesi confinanti inviarono soldati per salvare le persone e cercare i dispersi. Gli Stati Uniti inviarono elicotteri dalla Germania che lanciano stivaloni di gomma, sacchi a terra, battelli pneumatici, viveri e medicinali alla gente assiepata sui tetti. Dal territorio tedesco si mobilitarono anche molti volontari che misero in crisi le delicate relazioni diplomatiche post-belliche tra Germania e Paesi Bassi.
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Il Canada inviò diecimila paia di stivali e altri quattromila arrivarono dalla Danimarca. Diecimila chili di zucchero giunsero dalla Giamaica, duecentomila coperte dalla Svezia, centoquarantacinque chili di olive e seimila casse di arance da Israele, seimila pezzi di sapone dalla Germania, nove automobili diesel dall’Austria, novemila chili di riso dall’Iran e mille chili di datteri dall’Iraq. Duemila pontieri francesi nell’isola di Tholen cercarono di mettere in sicurezza gli abitanti. La lista delle merci arrivate e stoccate ad Amsterdam e Rotterdam è infinita.
Dopo pochi giorni la Croce Rossa chiese di non inviare più vestiti e reggiseni francesi (troppo piccoli per le donne olandesi). Qualche pettegolezzo ricorda come alcune pellicce sparirono negli armadi delle mogli dei sindaci locali non appena arrivarono nei luoghi alluvionati. L’United Nations Film Club di New York organizzò la proiezione di un lungometraggio con Marlène Dietrich, in cui l’attrice invitava a donare.
L’Unione Sovietica versò quasi 1 milione di fiorini nel fondo che alla fine giunse all’incredibile somma di 42 milioni di fiorini.
I “generosi” aiuti italiani

L’Italia, oltre a mandare 1.000.000 di sacchi di sabbia e quattrocento bottiglie di cognac, inviò in treno una squadra di 150 pompieri provenienti da tutto il Paese (un volantino del governo olandese tradotto in francese recitava “On vit même arriver le jeudì 150 pompiers italiens”) a cui si aggiunsero un tecnico radio, due ferrovieri e un operaio della Ditta Fumagalli specializzato nelle riparazioni di mezzi anfibi.
Come ricorda nelle sue memorie Carlo Malagamba, responsabile delle operazioni italiane, non potendo portare i propri mezzi in mare, i vigili del fuoco lavorarono di vanga giorno e notte per rafforzare la diga sull’Hollandsch-Diep in previsione di una nuova ondata. Rifiutarono di essere pagati da un consorzio agrario locale ma ricevettero molte lettere di ringraziamento e piccoli doni da parte di cittadini olandesi.
A tutto ciò non bisogna certo dimenticare i 200 milioni di lire (2 milioni di fiorini di allora, pari a 3.215.000 euro di oggi) che lo Stato italiano mise a disposizione della Croce Rossa per aiutare le popolazioni alluvionate. Come ricorda Marco Brando in un articolo molto condiviso in questi giorni, gli italiani furono definiti “gulle” (generosi) per il sostegno concreto che manifestarono.
Nulla di cui stupirsi: l’Olanda del resto aveva inviato soccorsi in Italia dopo le alluvioni nella pianura padana del 1951.
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Oggi non è certo il pericoloso mito degli “italiani bravi gente” quello che si vuol giocare. Al contrario, basta ricordarsi di un tempo neanche così lontano in cui la solidarietà europea era tangibile e non era soltanto sbandierata nei trattati.