di Greta Melli e Camilla Rapone
“C’è una differenza tra includere una certa categoria sotto-rappresentata e impedire alle altre di avere le stesse opportunità di carriera. La prima è inclusione, la seconda è discriminazione“.
Nei prossimi sei mesi l’Università TU di Eindhoven assumerà solo donne per incrementare la percentuale femminile nel corpo docente, fino ad oggi troppo bassa. Se non verrà trovata una candidata adatta in questo lasso di tempo, l’accesso al concorso verrà esteso anche agli uomini. Il programma è parte dell’Irène Curie Fellowship ed è partito il 1 luglio. Durerà almeno 5 anni.
Va detto, il piano è piuttosto radicale, ma necessario, secondo il rettore Frank Baaijens. I provvedimenti fino ad oggi intrapresi per dare all’ateneo un vero equilibrio di genere procedevano troppo lentamente perchè il cambiamento fosse visibile. E così è arrivata la decisione di introdurre una “discriminazione positiva” per far diventare normale la presenza di donne, in un ambiente dove fino ad oggi hanno rappresentato l’eccezione.
Necessaria la “discriminazione positiva”?
La notizia, come è scontato fosse, ha fatto il giro del web, suscitando un acceso dibattito. Ma è davvero necessario discriminare gli uomini per ottenere la parità?
Da una parte c’è chi ritiene che sia un grande passo avanti per garantire un maggior equilibrio in un ambito universitario generalmente riservato agli uomini mentre dall’altro c’è chi pensa sia un passo all’indietro, dato che l’accesso ai posti di lavoro sarebbe regolato non tanto dalla meritocrazia quanto dalla differenza di genere.
L’Università ha un’opinione ma solo in forma anonima
Per capire che aria tira in ateneo abbiamo chiesto ai diretti interessati, gli accademici, ma rintracciare qualcuno disposto a parlare è stato facile come trovare un ago in un pagliaio: pochi hanno risposto alla nostra “call”, e quelli che hanno accettato lo hanno fatto in forma rigorosamente anonima, chiedendo addirittura l’omissione di dettagli quali l’età e la nazionalità. L’atteggiamento dell’Università non è stato diverso. Il loro incaricato stampa, Ivo Jongsma, ha risposto alle nostre mail solo dopo ripetuti solleciti, limitandosi a segnalarci articoli pubblicati dall’Università dove si spiegava la faccenda; articoli, ovviamente, pubblicati senza contradditorio. Perché tutti questi timori di esprimere un parere, nel tempio della cultura e del pensiero libero?
Per i contrari: le donne sono troppo poche
“Non credo che la modalità scelta dall’università sia quella giusta“, dice A. a 31mag, “ci scontriamo con un problema di numeri: il numero di donne che studia in università tecniche è inferiore a quello di colleghi uomini; non tutte presumibilmente vorranno continuare con una carriera accademica. È così che la percentuale di uomini sale drasticamente”. Secondo lei, il vero problema è l’impostazione scolastica. Fin dall’infanzia, le bambine vengono indirizzate verso ambiti umanistici, più che scientifici. L’auspicio, secondo A., è quello di un maggior equilibrio: solo così si potrebbe colmare il gender gap.
Ancora più complicata è la riflessione legata al metodo, soprattutto per le donne che verranno assunte in questi sei mesi: “Sono certa che l’università si farà carico di selezionare solo personale altamente qualificato, senza cedere a compromessi sulle competenze solo per assumere una donna. Ma una donna assunta in questo modo dovrà convivere ogni giorno con il fardello del pregiudizio“, ha detto ancora A. a 31mag. “Molte persone penseranno che ha avuto quella posizione “solo grazie alle quote rosa” e non per la sua competenza.”
Il metodo sembra non piacere anche per le potenziali conseguenze sulla corretta scelta della candidata. M., ricercatore di 29 anni ad Utrecht, dice a 31mag: “Credo che escludendo a prescindere dei candidati da una posizione, ci sia il rischio di lasciarsi sfuggire il migliore”, dice. “In molti lavorano da anni alla TU/e in attesa che si apra una posizione permanente come professore o professore associato”, ragiona M. È giusto quindi essere costretti in questa maniera a rinunciare a possibilità di carriera?
“Un’università dovrebbe essere l’emblema della meritocrazia basata sulle competenze e garantire pari opportunità. In questi giorni ho parlato con alcune colleghe e tutte erano in disaccordo riguardo questa nuova policy”, conclude M.
Per chi è a favore: sessismo e discriminazione si combattono solo così
Meritocrazia e parità dei sessi proprio non riescono a fare la pace. E nel frattempo, su fronti opposti, la guerra va avanti.
B., donna per inciso, al contrario apprezza la drasticità del provvedimento: “Sai qual è il giusto modo di affrontare il problema? Sradicare i pregiudizi, gli attacchi sessisti su bassa scala, molestie (fisiche e psicologiche), discriminazione volontaria e involontaria. Insomma, essere trattate alla pari nella vita di tutti i giorni. Tutti possono dare un contributo, dall’ambiente universitario a quello lavorativo”.
Ma questo richiede tempo. E nell’attesa l’unica soluzione è quella di imporre un cambiamento radicale.
B. non teme che il progetto possa avere risvolti negativi: “Il margine d’errore nella scelta di una candidata adatta è minimo se non pari allo zero. In ogni concorso riservato alle donne di cui sono stata parte o testimone non è mai successo. Le commissioni erano molto soddisfatte delle candidate”.
Quindi, to be or not to be radical? Gran parte delle accademiche sembra abbia sue riserve. L’Università TU/e voleva dare una scossa al mondo accademico e di certo ci è riuscita. A loro la prossima mossa.