di Massimiliano Sfregola
Raccontare i rapporti tra Olanda e Sudafrica da un punto di vista olandese è un’operazione complessa: nonostante il tempo trascorso, questa pagina della storia dei Paesi Bassi rimane una delle più controverse, soprattutto per i fantasmi che evoca. Per la prima volta in Olanda è il Rijkmuseum ad offrire al pubblico una mostra intera -ospitata fino al 21 maggio- dedicata ai rapporti tra i Paesi Bassi e la ex colonia.
Tra dipinti, abiti e pubblicazioni sono in mostra, inoltre, 300 tra documenti, fotografie, mobili, souvenir e oggetti emerge una narrazione pulita e, in apparenza, schietta che ricalca qualche stereotipo di troppo e cerca una narrazione nuova ma prudente su quella controversa pagina di storia.

“La mostra ‘Goede hoop’ espone una parte importante della nostra storia coloniale vista in tutte le sue sfumature. Una storia dolorosa e imponente, ma soprattutto preoccupante e riconoscibile. ” l’ha definita Adriaan van Dis, scrittore e studioso dell’Africa.
Indipendentemente dai giudizi di merito, in Sudafrica c’è tanta Olanda; si intravede nell’architettura, nella lingua, nella presenza della Chiesa protestante riformata. L’Afrikaans, un idioma in larga parte intellegibile con l’olandese -patrimonio linguistico dei “boers”- è forse la traccia più evidente di questo stretto legame; ed è in afrikaans il termine apartheid, l’aspetto più oscuro e controverso.
La lunga carrellata di prove documentali si muove attraverso -oltre- 400 anni di storia, racconta le vicende politiche -dai traffici della Compagnia delle Indie alle guerre anglo-boere- concludendosi con le rivolte studentesche dello scorso Ottobre.- ma è allo stesso tempo un’occasione unica, soprattutto per i non olandesi, di comprendere più a fondo storia, usi e costumi di un paese simbolo, per mezzo mondo, di speranza ed ingiustizia; disuguaglianze e lotte per i diritti civili.
Goede Hoop poteva essere una seduta psicanalitica per l’olandese che scava nel suo passato e cerca di capire quali “responsabilità morali” possa avere il suo paese per il regime razzista che ha governato il Sudafrica dal dopoguerra al ’94.
Invece manca un elemento importante in questo racconto: il punto di vista “non bianco”. Secondo Nick Shepherd e Christian Ernsten, in un pezzo di opinione apparso sul quotidiano NRC, questo nodo, ossia il punto di vista “africano” è sacrificato sulla base del dualismo “bianchi-neri”. Gli olandesi hanno introdotto la schiavitù e commesso genocidi ma questi elementi, continuano gli accademici, si perdono nella costruzione dell’idea di “cultura condivisa”, un concetto che richiama un pò la conciliazione nazionale invocata in Sudafrica da Mandela dopo il ’94.
Secondo gli accademici, la lettura data dai curatori -soprattutto della storia contemporanea- evidenzia la speranza di un paese che ha lasciato alle spalle gli anni bui dell’apartheid per guardare al futuro mentre le proteste universitarie degli ultimi mesi e la crisi economica, hanno riportato a galla un altro sentimento: la volontà di fare i conti a tutto tondo con i simboli e l’eredità del passato coloniale, con la loro storia nazionale, e non strettamente con l’apartheid, considerato da molti sudafricani “coloured” come la conseguenza di una serie di processi nei quali l’Olanda è direttamente coinvolta.
Di questi processi, oltre alla sequenza cronologica dei fatti storici, nella mostra c’è poca traccia.