di Elisa Battistella e Federica Veccari
Olanda e coffeeshop, terra promessa per i consumatori della pianta proibita, paradiso per curiosi e “fattoni” che da mezzo mondo (e da quasi mezzo secolo) vengono in pellegrinaggio per visitare le note caffetterie. Nei luoghi di culto per gli adepti della ganja, tutti i sensi ricevono uno stimolo: gli occhi si socchiudono per abituarsi all’ambiente poco luminoso, si sentono parlare lingue diverse e, se la musica non è troppo alta, un orecchio raffinato non fatica a cogliere lo stridolio del grinder che trita, la pietra degli accendini che sfrega e il suono atono del fumo sputato.
La clientela dei coffeeshop non conosce piramide sociale: dai colletti bianchi alle tute blu, dai padri di famiglia alle mamme single non c’è categoria che non varchi quelle porte una o cento volte in una settimana. Loro, grazie alle particolari regole olandesi, comprano a grammo e pagano con carta come fossero in una torrefazione. Ma se ciò che acquistano diventa abbastanza legale una volta nel coffeeshop, certamente non lo è prima di varcarne l’ingresso. Per via di questa politica permissiva, che gli olandesi chiamano gedoogbeleid, con il tempo, il “backdoor”, le scorte, sono diventate un vero grattacapo per le istituzioni. Come è possibile che una sostanza illegale venga venduta in un negozio e addirittura pagata con il bancomat? In amore, come nel libero mercato, tutto è lecito: basta non farsi sgamare.
La normativa che tollera i coffeeshop non si occupa di scorte, e di come arrivano cime e panette di fumo dietro il bancone pochi sanno qualcosa. Farsi raccontare questo mondo sommerso, non è semplice: tecnicamente si tratta di attività per le quali si rischiano carcere e pesanti sanzioni pecuniarie e per questo motivo trovare gente disposta a parlare è tutto tranne che una passeggiata.
Prima regola dei coffeeshop: non si parla dei coffeeshop
Con faccia tosta e un po’ di fortuna, alla fine, qualcuno l’abbiamo trovato. “Ma è tutto anonimo, vero?” si assicura Silver Haze, “Perché non voglio rischiare il posto”, aggiunge Iceolator. Silver Haze e Iceolator non sono olandesi e da anni lavorano nel business semi-legale della canapa. Per evitare guai ai nostri interlocutori, abbiamo omesso i loro nomi.

Chi è il dealer? Per i non addetti ai lavori, si tratta della persona che accoglie il cliente, consiglia cosa acquistare e mette in busta hashish e marijuana. Il lavoro di “consulenza” non è frutto di corsi specifici, ma si basa sull’esperienza personale anche se il dealer, per la legge, non esiste: “Siamo assunti con contratto dell’Horeca per camerieri”, dice Silver Haze a 31mag. Spesso la persona che vedete dietro il bilancino è la stessa che prepara tè, caffè o succhi di frutta. Ma il vero dealer, lo spacciatore, colui che porta la merce in negozio non è lui.
Chi si occupa di trasportare in giro per la città le scorte è il runner, una persona che, zaino in spalla, consegna al coffeeshop la quantità richiesta di merce cercando di passare inosservato. I dealer non sanno, con precisione, chi sia e cosa faccia il runner: “Chi consegna potrebbe essere un privato che dispone di un piccolo capitale e manda avanti un suo business, magari coltivando nel proprio appartamento e poi rivendendo ai coffeeshop. Oppure potrebbe trattarsi di gente che lavora per un’organizzazione criminale più consolidata”, afferma Iceolator.
Chi consegna non firma contratti ma opera in maniera informale per uno o più da coffeeshop, spiegano i nostri dealer. Quella del runner, quindi, è un’attività senza alcuna tutela di legge. In concreto, quest’ultimo, cosa rischia? “200 ore di servizi sociali e la confisca di ciò che trasporta”, afferma OG Kush. Il coffeeshop è sollevato da qualunque tipo di responsabilità perché con queste persone non ha rapporti formali. “Se un runner viene fermato dalla polizia, deve vedersela da solo”, ridacchia Silver Haze, “finisce certamente nei guai ma non va dietro le sbarre.”
Un’ altra questione riguarda l’approvvigionamento: da dove arriva la merce ? Il mercato olandese della droga è di dimensioni globali: dal porto di Rotterdam transita gran parte della cocaina consumata in Europa e il Brabante a sud del Paese, è un vero e proprio laboratorio di ecstasy a cielo aperto. Se è così per sostanze non tollerate, figuriamoci per la cannabis.

Come raccontato dal documentario interattivo The Industry, ogni anno nei Paesi Bassi vengono smantellate 5,500 weed farms, che sono in realtà solo la punta dell’iceberg. L’economia della canapa e il suo indotto coinvolgono una fitta rete di imprese legali che contribuisce a costruire l’infrastruttura sulla quale si regge il mercato clandestino verde.
E con l’ufficio delle tasse? E’ comune pensare che il prodotto tipico di questi esercizi sia tassato per legge ma, come spiega OG Kush non è così: ”paghiamo imposte solo sui soft drink, con un’aliquota del 9% più bassa rispetto al 21% previsto per gli alcolici”. Quindi, in pratica, i coffeeshop non pagano tasse. “Tutta l’amministrazione che riguarda la cannabis viene tenuta in un archivio. Ma è per uso interno e non viene registrata ufficialmente”.
La parola all’esperto
“Come molti aspetti della politica olandese, si tratta di una storia complicata”, racconta Derrick Bergman, presidente dell’associazione pro legalizzazione VOC Nederland. A chi è venuta in mente questa assurdità dei coffeeshop, dove tutto è legale e illegale?
“La legge sulle droghe è del 1976 e ha distinto droghe leggere e droghe pesanti. Quando il possesso di una piccola quantità di cannabis venne depenalizzato, un numero di centri culturali, come il Paradiso e il Melkweg, già tolleravano la presenza di un house dealer, sostanzialmente uno spacciatore autorizzato che poteva vendere solamente droghe leggere”.
Dunque, qualcuno ebbe un’idea geniale: se la cannabis veniva tollerata in queste associazioni, perchè non provare a venderla in negozio? L’esperimento funzionò e “da qui nacquero i primi coffeeshop”. E le autorità? “Solo nel 1981, il Ministero della giustizia pubblicò il primo regolamento per i coffeshop, dopo il quale il loro numero aumentò vertiginosamente”, prosegue il giornalista.
L’Olanda ha preso il primo treno per la legalizzazione della cannabis e poi si è persa per strada: 43 anni dopo, la produzione è ancora illegale e attivamente perseguita. Questo è ciò che viene definito “paradosso del backdoor”: i coffeeshop sono autorizzati a vendere cannabis attraverso la porta principale, ma devono rifornirsi al mercato nero. “Il governo olandese avrebbe dovuto modernizzare da tempo le norme sulla produzione”, continua Derrick Bergman. “Ciò avrebbe permesso maggiori garanzie sulla qualità, una coltivazione sicura e sostenibile e la creazioni di nuovi posti di lavoro. E’ assurdo che Uruguay e Canada abbiano legalizzato, mentre l’Olanda si perde ancora in giochi politici“.
Un timido tentativo di superare l’impasse è in discussione da qualche tempo: il governo vorrebbe regolamentare anche la produzione affidando ai comuni il compito di coltivare la cannabis e distribuirla ai coffeeshop. Nonostante le buone intenzioni, il progetto è fermo da tempo: “è un brutto compromesso politico tra partiti con visioni radicalmente diverse sull’argomento”, taglia corto Bergman.
La politica non decide
E la politica, che sembra essere il problema principale, cosa ne pensa? Ernsting Zeeger, consigliere comunale di Amsterdam eletto con il Groenlinks, partito che guida la coalizione di governo della capitale non boccia del tutto la norma: “L’esperimento ha molti limiti che rendono difficile la partecipazione, ma ne stiamo ancora analizzando i punti di forza. È difficile immaginare che tutti i coffeeshop della città parteciperanno”, dice Zeeger. “D’altro canto, se l’esperimento avrà successo, potrebbe rivelarsi una svolta per una futura legalizzazione. Siamo favorevoli perché permetterebbe maggiore controllo e sicurezza, sia sui clienti del coffeeshop sia sui loro proprietari”.
Il politico e il giornalista concordano sulla necessità di legalizzare, ma la situazione attuale sembra andare in un’altra direzione: “per anni il numero dei coffeeshop è calato, creando enormi opportunità per circuiti clandestini”, spiega Bergman: “i pochi coffeeshop rimasti aperti devono servire un numero maggiore di clienti e gestire i problemi di ordine pubblico che conseguono”.
Ma è proprio vero che tutto ciò che riguarda la cannabis è monopolizzato da organizzazioni criminali? Le cifre che si leggono sono approssimative: “nessuno sa chi produce, quanta se ne produce e quanto viene importato. Questo è uno degli effetti negativi del proibizionismo.”