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di Antonia Ferri
Cees Nooteboom (Aia, 1933) è uno dei più importanti autori nederlandesi. Il New York Times l’ha definito: “Una delle voci più alte nel coro degli autori contemporanei”. È autore di romanzi, poesie, saggi e libri di viaggio ed è stato insignito di numerosi premi letterari. Si è rivelato al mondo a ventidue anni con Philip e gli altri. Negli anni successivi ha raggiunto un successo planetario e le sue opere sono tradotte in più di 30 lingue.
L’opera di Nooteboom ruota intorno alla ricerca del senso dell’io. Un senso che non si riesce a trovare e che allo stesso tempo non viene quasi mai nominato all’interno degli scritti dell’autore. Tranne in uno dei passi della raccolta di poesie L’occhio del monaco (Einaudi, 2019), dove viene esplicitamente cercato:
C’è in questo miraggio un senso,
una logica? O sono parole
che si nutrono della lingua come movimento,
parlando a se stesse?
Come in un’opera di meta-rappresentazione, la vita e il senso di essa sono da rintracciare nelle opere di Nooteboom nel senso della parola. Per questo i protagonisti delle poesie, dei racconti e dei romanzi hanno sempre a che fare con la parola. Che siano essi scrittori o autori. E Nooteboom nella suo stile e nella sua parola somiglia molto ad altri: Borges e Calvino, a tratti ricalca i russi e Carrère, in altre occasioni sembra di star leggendo Pessoa, altrove si ritrova il forte richiamo a Montale. Seppur, però, sia un autore camaleontico e pieno di rimandi, Nooteboom possiede una simbologia fissa.
Il tempo come nascondiglio del senso dell’io
Centrale è il tempo. In questo è simile a Borges e Calvino. Si nota con chiarezza una ricerca di senso all’interno dello spazio del momento. In Nooteboom l’attimo è il fulcro del tempo e della vita. Certo, l’istante si somma ad altri istanti, ma non è il loro insieme a costituire la vita. Per questo, per Nooteboom come per Borges, lo scorrere del tempo non ha significato.
In questo senso è ragionevole citare La storia seguente (Iperborea, 2000). Un romanzo, quest’ultimo, sulla metamorfosi. Si potrebbe dire che uno scrittore che incentra un suo romanzo sul cambiamento, non possa avere come unico riferimento l’attimo. In Nooteboom, però, la metamorfosi è un caos in cui non si è più consapevoli se si è vivi o morti.
La storia seguente racconta perciò la perdita del senso del vivere, così come Le volpi vengono di notte (Iperborea, 2010) ne costituisce la ricerca. In questo romanzo la storia e le vite si avvicendano attorno al topos della fotografia. È qui che in Nooteboom si rivede il Calvino di L’avventura di un fotografo (1955). Così come in Calvino, nel nostro autore l’essenza e la vita restano intrappolate nello scatto della macchina fotografica. Ciò che precede e segue lo scatto è solo finzione e confusione. In Nooteboom la ricerca della storia intorno al perno di una fotografia ritrovata perde infine di significato. È solo la fotografia che resta. Unicamente la fotografia può raccontare le vite a qualcun altro. Ma allo stesso tempo, la fotografia non racconta nulla. L’attimo non conosce la metamorfosi. Quindi tutto ciò che uno scatto può rivelare sono solo volti vuoti.
Cees Nooteboom, filosofo dell’esistenza
In Il canto dell’essere e dell’apparire (Iperborea, 1995) Nooteboom sembra trovare la sua cifra stilistica. La scopre all’interno di un libro in cui protagonisti sono uno scrittore e gli esseri di carta che escono dalla sua penna. Un romanzo meta-letterario in pieno stile calviniano (vedi Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979). Eppure, il procedere della narrazione al ritmo di divagazioni filosofiche svela l’autore (o ciò che lui vuole dirci di sé stesso). Nooteboom è a suo agio nel caos, nelle speculazioni filosofiche e letterarie. È a suo agio nello scrivere un romanzo che sembra più un saggio sullo scrivere. Un libro che parla di libri.
È ancor più chiaro in quest’ultimo romanzo che è un solo momento a definire il senso. La vita per i personaggi di Nooteboom, e forse per egli stesso, è realmente tale nell’attimo che precede la morte. Così il tempo, la fotografia, la meta-narrazione sono solo espedienti per una continua indagine sul senso dell’esistenza. La fotografia in fondo porta con sé lo scatto che ingabbia e uccide. E, uccidendo il cambiamento, nulla esiste più, ma tutto ha un reale compimento.
E quindi l’esistenza di un io persona – è palese nell’opera di Nooteboom – è vera solo in quanto quell’io giungerà a una fine.