INCHIESTA 31MAG

INCHIESTA 31MAG

L’Università in Olanda parla inglese: tra opportunità e “sindrome d’assedio”, viaggio nell’internazionalizzazione accademica dei Paesi Bassi

di Serena Gandolfi

 

Corsi in inglese sì o corsi in inglese no? Da tempo è un dibattito fisso nelle Università olandesi. Gli atenei esultano per l’aumento esponenziale di immatricolazioni mentre per docenti e ricercatori internazionali i Paesi Bassi sono una meta privilegiata per avviare o proseguire carriere. Eppure, l’altra faccia della medaglia, è rappresentata dalla preoccupazione crescente tra gli autoctoni che la presenza di stranieri diventi dominante negli atenei, limitando l’accesso agli olandesi ma soprattutto che la didattica in inglese, penalizzi la qualità degli insegnamenti.

Alcune università pensano a numero chiuso e sbarramenti linguistici più severi ma in generale, giustificata o meno,  è diffusa una certa sindrome d’assedio dei locals. L’elemento più evidente è la moltiplicazione dei corsi offerti in inglese.

Inglese lingua ufficiale dei master

Ma vediamo i numeri: negli ultimi dieci anni le immatricolazioni degli studenti stranieri sono raddoppiate; Come riporta Nuffic, nel 2018 gli Internationals hanno raggiunto quota 122.000. La percentuale di matricole non olandesi nei primi tre anni dei bachelor è oggi del 14%, mentre sono il 23% gli studenti iscritti a corsi di master.

Numeri importanti, accompagnati dal boom di insegnamenti impartiti nella lingua di Shakespeare. L’inglese sta lentamente monopolizzando le aule: poco più della metà dei programmi di bachelor è proposta in olandese mentre i master nella lingua locale sono solo il 15%.

L’internazionalizzazione delle università rappresenta un valore aggiunto sia per gli studenti olandesi  che per quelli stranieri, sostengono molti ma allo stesso tempo l’anglicizzazione dell’educazione solleva certamente dei dubbi;  viene da chiedersi se l’insegnamento e l’apprendimento in una lingua veicolare non finiscano per compromettere la qualità dei corsi.

Non tutti sono ottimisti

Beter Onderwijs Nederland (BON), organizzazione in difesa dell’istruzione olandese, è stata tra le prime a mobilitarsi per frenare la corsa all’inglese dell’educazione di alto livello organizzando una raccolta fondi e una petizione contro le Università di Twente, Maastricht e contro il governo stesso :“Ci tengo a precisare che non siamo contrari all’arrivo di studenti o docenti stranieri, e nemmeno all’utilizzo della lingua inglese di per sé” spiega a 31mag Gerard Verhoef membro di Bon, docente di Matematica e Fisica all’Hogeschool di Amsterdam. “Quello che ci preoccupa è l’impennata di iscrizioni straniere. Con questo ritmo l’olandese rischia di diventare una lingua di serie B.”  E non è solo una faccenda di  “d’identità”:  le preoccupazioni di BON sono legate a questioni economiche, come l’uso improprio delle risorse pubbliche e pratiche, come il rischio che uno scambio educativo si riveli poi troppo superficiale. “Se l’inglese non è la lingua madre né dei docenti né della classe, come può esserci una buona comunicazione? Soprattutto quando si parla di temi complessi come quelli affrontati nelle aule delle università”

Non la pensa evidentemente così la Ministra dell’Istruzione Ingrid van Engelshoven che a inizio mese, in una lettera al parlamento, aveva difeso l’internazionalizzazione definendola semplicemente una risorsa. Ma rassicurando il mondo accademico aveva aggiunto: “ i posti per gli studenti olandesi saranno sempre garantiti, così come un numero di corsi in lingua madre. L’obiettivo primario degli istituti non dovrà essere solo quello di attirare matricole dall’estero”.

Errori nel testo d’esame e Google Translate per le slide

Sarà, ma è stata proprio l’ottima reputazione dell’istruzione olandese a portare Teresa, tedesca, 20 anni, a iscriversi al primo anno del corso di laurea in Psicologia all’UvA.  “Per noi europei studiare nei Paesi Bassi non è caro (2.000 euro circa, la stessa tassa degli studenti locali) e l’offerta internazionale è molto attraente” racconta a 31mag. “Non credo che l’utilizzo dell’inglese  riduca la qualità dell’apprendimento ma è vero che in almeno due traduzioni di esami scritti, ho trovato errori di spelling o grammaticali non marginali: erano sviste che rendevano difficile la comprensione stessa della prova. Fastidioso in quel caso perché era una penalizzazione proprio in sede d’esame.” prosegue Teresa. “Non tutti i docenti padroneggiano la lingua e in un corso, l’insegnante usava slide tradotte con google translate”.

Eva, olandese, frequenta lo stesso corso di Teresa ma seguendo la track (il percorso) nella sua lingua madre. Studenti olandesi e stranieri assistono alle stesse lezioni frontali impartite in inglese, vengono poi suddivisi in gruppi di lavoro dove si confrontano, rispettivamente, nell’idioma nazionale e in quello veicolare. “Da questo punto di vista l’Università è organizzata piuttosto bene e la presenza di stranieri in questo modo non rallenta le lezioni” ci spiega. Tuttavia sembra cogliere la difficoltà di alcuni docenti: “A volte ho l’impressione che non riescano davvero a esprimere quello che vorrebbero. Come se, dovendo parlare in inglese, non riuscissero ad approfondire e entrare nel dettaglio di concetti complessi come vorrebbero”.

Tra i docenti ,però, sembra prevalere l’ottimismo.

Al momento dell’assunzione a tutti i docenti viene richiesto un livello specifico di competenza linguistica e i docenti stranieri, anche a ragione della grande richiesta formativa, rappresentano una risorsa per gli atenei dei Paesi Bassi. Ogni anno il loro operato così come la loro fluency vengono valutati anche dagli studenti.

31mag ha poi incontrato un’altra Eva, sempre olandese, che immaginando un futuro nella ricerca, ha scelto appositamente un programma internazionale: “Ho intenzione di fare ricerca o comunque rimanere in quest’ambito. Se avrò intenzione di pubblicare dovrò farlo in inglese anche per raggiungere un pubblico più ampio. Inoltre non credo sia faticoso studiare in un’altro idioma, si tratta solo di abitudine”.

Internazionalizzazione è ormai diventato sinonimo di anglicizzazione: nonostante l’inglese sia la lingua globale per eccellenza, e il suo utilizzo nei settori tecnico-scientifici non sembra abbia sollevato particolari problematiche, rimane il dubbio se possa adattarsi altrettanto bene anche all’approfondimento di materie come Letteratura, Storia e  Scienze Sociali legate al contesto storico-politico locale. I dipartimenti umanistici dovendosi ora confrontare con studenti dai background culturali più disparati iniziano a mettere in discussione i loro programmi. Tra i docenti ,però, sembra prevalere l’ottimismo.

Joris Larik, insegna Diritto Internazionale all’Università di Leiden e vede solo opportunità: “L’inglese permette di comunicare con classi eterogenee, prepara gli studenti a carriere internazionali e non credo si possa davvero dire che la qualità dell’educazione in generale ne risenta. Le classi composte da più nazionalità sono molto vivaci e ricche di idee. Incoraggio sempre i miei studenti, soprattutto quelli che vengono da regioni o situazioni particolari, a dare il proprio contributo alle lezioni e ad andare oltre la lettura dei testi in inglese. Spesso sono proprio i loro punti di vista ad approfondire le lezioni”

Nel dibattito sull’internazionalizzazione le voci sono molte e tante le possibili sfaccettature della questione. Da preoccupazioni per i costi, non solo economici ma anche sociali, di un sistema di istruzione cosi orientato all’estero all’interesse di molte città, soprattutto quelle più piccole, per il contributo che questi apportano all’economia locale.

SHARE

Altri articoli