di Martina Fabiani
Le stesse foto che nel 1976 al MoMa di New York vennero congedate con l’accusa di essere banali e sconclusionate, sono oggi considerate un capolavoro assoluto di uno dei padri della fotografia a colori, William Eggleston. Prima di lui, la pratica veniva associata solo ai cliché della pubblicità e a quel po’ di frivolo e volgare che si portava dietro. Nonostante ciò, William sperimentò il “dye transfer” – procedimento che consiste nel trasferire tre immagini in bianco e nero in colori primari per poi ottenere la stampa – che gli permise di controllare la saturazione e ottenere nuove sfumature nella tonalità. Lo vediamo nella mostra Los Alamos, presente al Foam di Amsterdam dal 17 marzo al 7 giugno 2017.
Se, come apprendiamo dai racconti e dai personaggi di Raymond Carver, per raccontare lo straordinario bisogna avere la padronanza dell’ordinario; anche il fotografo americano segue questa scia.
Interni di locali, un uomo intento a fare benzina, un’insegna pubblicitaria, una bottiglia mezza piena, la parte posteriore di una macchina e della spazzatura abbandonata sul ciglio della strada, dettagli urbani che altri occhi ignorerebbero o snobberebbero, sono i soggetti prediletti da William Eggleston. Lungi dall’essere un lavoro con intenti politici o una fotografia di protesta, tanti hanno usato l’espressione “fotografia democratica” per rivolgersi al fotografo. Questo perché l’americano accoglie le brutture e gli scorci apparentemente banali della sua città, li decentra, e ce li restituisce mostrandoceli da angolature inconsuete e con quei toni sgargianti senza essere fastidiosi; è affascinato dalle infinite possibilità dell’ordinario.
Il progetto Los Alamos nasce a Memphis, dove l’artista è nato e si sviluppa grazie a una serie di viaggi nell’America meridionale fino ad arrivare alla città messicana che dà il titolo alla mostra. Un progetto quindi che nasce in America e sa di America, quella dalle immagini fluorescenti e pop dei grandi cartelloni pubblicitari. Però anche quella della solitudine spesa seduti al bancone di un bar, la stessa che vediamo nei quadri di Edward Hopper.
Il Foam dedica una sala di media grandezza ai 75 scatti del fotografo americano, che potevano meritare un formato maggiore; accanto a questa, un documentario di circa mezz’ora sulla sua biografia e il suo lavoro: “Faccio una fotografia alla volta, non due, altrimenti mi confondo”, afferma.
È un linguaggio popolare, quello del fotografo del Tennessee, accessibile a tutti e questo perché da sempre rifiuta ogni concettualizzazione filosofica e metafisica attorno al suo lavoro. Da dove derivano quindi le sue foto? “Aspetto semplicemente che arrivino, come se fosse la cosa più ovvia in questo mondo”, afferma il fotografo in una delle tante interviste sul suo lavoro.
Ispirazione per aspiranti fotografi e stilisti – la stessa Stella Mccartney lo considera un idolo – William ha lasciato senza alcun dubbio una forte impronta nel mondo dell’arte. Il cinema è forse in cima alla lista. I dettagli delle tavole calde in Twin Peaks di David Lynch, quegli sguardi un po’ persi ma intensi sempre in bilico tra realtà e sogno, le inquadrature non perfette ma efficaci, le vediamo nelle foto di Eggleston prima che nei film di Lynch.
Illuminare quei momenti ordinari che altrimenti passerebbero inosservati e verrebbero risucchiati dallo scorrere inesorabile del tempo, come ha fatto Sofia Coppola– la stessa regista dichiara di essersi ispirata a Eggleston – nel suo film d’esordio “Il giardino delle vergini suicide” dove, però, il tempo alla fine ha preso il sopravvento.