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La morte di Noa / Cari lettori scusateci. E per la credibilità del giornalismo chi ha sbagliato deve pagare

di Massimiliano Sfregola

 

Martedì mattina, come ogni martedì mattina da un anno a questa parte, ero sulla linea 51 della metro di Amsterdam per raggiungere la redazione di 31mag. Per ingannare l’attesa scorrevo distrattamente i titoli dei giornali sullo smartphone quando uno, in particolare, mi ha bloccato il pollice: l’olandese Noa (17) che non voleva più vivere è morta: “La mia sofferenza è insopportabile”, titolava in olandese il portale fiammingo Het Laatste Nieuws. Chi è Noa? L’articolo del quotidiano belga riprendeva un pezzo del giornale di Rotterdam AD, ormai noto a mezzo mondo, e raccontava la struggente storia della giovane.

C’era la parola eutanasia, si c’era, ma l’articolo spiegava che la dolce morte era stata negata alla sfortunata 17enne. La riprendiamo in italiano su 31mag, ho pensato. No, non la riprendiamo, ho deciso in redazione: non c’è storia, non c’è niente da riprendere. Ci servono “click” per qualche cent di pubblicità? Li facciamo con il meteo, che almeno a qualcosa serve, non con storie strappalacrime che nulla portano al dibattito pubblico se non quello di solleticare l’irrefrenabile pulsione odierna di trasformare tutto in un reality show o in una serie di Netflix. Il dramma di Noa è della famiglia e degli amici di Noa, non è nostro. Non abbiamo alcun diritto di discuterne in piazza. O meglio, abbiamo pensato, non se ne discuterà sulla nostra piazza.

Solo a metà del pomeriggio, la storia di Noa, nella versione passata come caso di eutanasia è diventata virale. E da subito, ho pensato: strano, l’articolo di AD diceva qualcosa di diverso. Non parlava di eutanasia perché se così fosse stato, eutanasia ad una 17enne per disturbi alimentari e della personalità, ne avrebbe parlato tutta Olanda. Nei Paesi Bassi non c’è indifferenza o meno interesse per vicende da “tabloid” che in altri paesi, c’è un senso del limite che nel nostro paese, invece, manca del tutto. Comunque, nulla sul Telegraaf, nulla su Hart van Nederland che queste storie non se le lascia quasi mai sfuggire, nulla su NOS, Volkskrant, RTL o qualunque altro media che non fosse AD. Nulla, storia inesistente. 

Da subito ci siamo messi al lavoro in redazione perché troppi elementi di questa vicenda andavano chiariti. Intorno alle 23 di martedì, quando ormai tutto il mondo era scioccato dalla storia (tutto il mondo tranne l’Olanda che non si era accorta del putiferio che stava accadendo oltreconfine) siamo stati il primo media in italiano e probabilmente il primo al mondo, ad aver sollevato dubbi sulla veridicità della faccenda. Il nostro fact-checking è stato la fonte per i diversi portali italiani, da alcuni citato da altri no. 

 

Perchè nessuno si scusa?

Dopo le peggiori 24h della storia recente del giornalismo globale, dopo le rettifiche e le analisi sarebbe arrivata l’ora delle scuse ai lettori. La vicenda della povera Noa è probabilmente il più assurdo caso di fake-news mainstream che si ricordi perché la prima versione, quella del si all’eutanasia alla giovane olandese, ha in tutto e per tutto la morfologia di quelle orrende e strampalate scemenze che noi giornalisti e parte del pubblico additiamo quotidianamente come sostanze tossiche per la democrazia.

Eppure in pochi si sono scusati. E le testate che l’hanno fatto, come Repubblica dall’account Twitter del suo direttore, poco dopo hanno fatto partire per l’Olanda un loro inviato per andare a bussare a casa di Noa. Per parlare, di cosa non si sa, con la famiglia, con gli amici, per cercare di estrapolare quel dettaglio che avrebbe mandato in visibilio gli appassionati della tragedia: vogliamo sapere, vogliamo sapere esattamente come è morta, che vestiti portava addosso, se se n’è andata pronunciando qualche frase. Vogliamo sapere cosa ne pensa la famiglia della sua morte, se è disperata e quanto è disperata. E magari vorremmo anche il ricordo del bidello della sua scuola elementare. La famiglia aveva chiesto, espressamente, di essere lasciata in pace e volare ad Arnhem per cercare di estrapolare dettagli privi di rilevanza pubblica, da parte di giornalisti de La Stampa, il Corriere e Repubblica è stata solo l’ennesima caduta in un pantano da cui non si vede la via d’uscita.

Noi a questo orrido circo dei drammi umani in piazza non ci uniamo e alla suscettibile categoria giornalistica nostrana, possiamo dire di avere tutti i titoli per poter fare morali: 31mag è una micro-testata, in larga parte mandata avanti da volontari, e pur senza mezzi -certamente senza i mezzi dei grandi gruppi editoriali- ha comunque trovato il tempo di preoccuparsi delle conseguenze che la diffusione non controllata di quella notizia avrebbe potuto avere (e di fatto, ha avuto). 

L’inviato di Repubblica ha tentato di avvicinare la famiglia di Noa

 

 

Cosa facciamo, ce la prendiamo con i troll russi e le pagine FB piene di patacche, deridiamo quei siti ostati su .blogspot.com che travisano, manipolano e costruiscono notizie false e poi costruiramo, con le stesse dinamiche, una notizia falsa per quattro click e un po’ di visibilità? L’episodio dell’altro ieri, fatemelo dire, è il punto più basso toccato dalla categoria giornalistica negli ultimi tempi e una chiara “wake up call”: la nostra credibilità è al minimo, la gente non si fida più di noi e forse siamo più simili ai bufalari, dai quali ci piace tanto altezzosamente distinguerci di quanto non crediamo.

Perchè in questa miserabile vicenda non ci sono solo superficialità, approssimazione da tabloid, no, in questa vicenda c’è anche un’incontentabile carica di cinismo da giornale scandalistico che ha portato testate nazionali a manipolare le traduzioni, già a loro volta storpiature dei fatti, per aggiungere carica emotiva e pathos ad un dramma che di pubblico e giornalistico non aveva nulla.

Il Corriere, ad esempio, dove ha trovato il dettaglio che “domenica, con il supporto dei medici di una clinica, e con sua madre accanto, è stata sottoposta all’eutanasia”? E Repubblica, a quale autorevole fonte, oltre all’immaginazione del redattore di turno, avrebbe attinto per affermare “la notizia scuote l’Olanda” quando nei Paesi Bassi quasi nessuno si era accorto della vicenda?

Per questo le mie scuse ai lettori sono sincere; sono scuse da direttore di un piccolo portale e da appartenente ad una categoria di cui nessuno si fida più, consapevole che il declino del giornalismo è causato si da questioni sistemiche ma soprattutto dal cinismo e dal disinteresse per la sorte del giornalismo di una fetta troppo grande e troppo importante della categoria. L’informazione, ormai, è un’attività hobbistica, soprattutto nel nostro paese, basata sullo sfruttamento di migliaia di collaboratori esterni, pagati pochi euro a pezzo e senza alcuna prospettiva futura mentre gli investimenti sono pochi e i conti rimangono in rosso; giusto un circolo ristretto di giovanotti quasi tutti con i capelli grigi campa in Italia di giornalismo e così l’assenza di ricambio e il terrore costante di chi un contratto e una sedia al desk ce l’ha è quello di rimanere senza lavoro. E come si sa, terrore e indipendenza non vanno d’accordo.

Se persino porgere delle scuse per un tragico errore e sanzionare chi viola la prima regola del giornalismo (riportare notizie vere) diventa un problema e anzi, l’incidente diventa un’occasione da sfruttrare per incrementare il traffico (e magari far dimenticare l’epic fail), allora ha ragione chi considera la stampa la prima fonte di disinformazione. E se nella categoria nessuno, pur pensandole, scrive cose simili per paura di ritorsioni oppure per paura di venire isolato, vuol dire che chi addita quella giornalistica come una “casta”, forse non ha tutti i torti.

Da parte nostra, di 31mag, facciamo ciò che ci sembra giusto e in questo caso, ci sembra giusto che le redazioni dei giornali che hanno ripreso la vicenda di Noa porgano pubblicamente delle scuse, come le stiamo porgendo noi, e che i giornalisti che hanno deliberatamente inventato delle porzioni della storia paghino per il loro comportamento.

A questo punto la credibilità si può riguadagnare solo con un gesto di umiltà e con  l'”accountability” (la responsabilità) che rompa quell’odiosa e ingiusta difesa corporativa alla base dei mali del giornalismo.

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