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La Colombia continua a picchiare i colombiani. E il paese scivola nel caos

di Maurizia Mezza

 

Da oltre un mese la Colombia è scossa da gravi tensioni sociali e politiche. Giorni e notti di paura in cui le migliaia di persone riverse nelle strade sono state brutalmente represse dalla polizia, come documentato da numerose ONG tra le quali Human Right Watch.

Quella attuale è una delle più gravi crisi del paese sudamericano nella storia recente, deflagrata il 28 aprile scorso con uno sciopero nazionale indetto contro la riforma fiscale promossa dal governo del presidente Iván Duque. A sedare le proteste non è bastato che il governo ritirasse la riforma con la quale cercava di far quadrare i conti dello Stato aumentando le tasse. Né che il Ministro delle Finanze rassegnasse le dimissioni: la reazione della polizia, accusata di aver commesso omicidi, violenze sessuali e sparizioni forzate fin dai primi giorni dei disordini, hanno prodotto l’effetto opposto a quello auspicato dal regime,  spingendo più persone in piazza. In seguito  all’ondata di forti critiche internazionali, il governo ha perso pezzi con le dimissioni del ministro degli Esteri, Claudia Blum e dopo più di un mese dall’inizio delle proteste il governo ed il comitato nazionale di sciopero non son riusciti nemmeno a sedersi al tavolo delle trattative.

Le proteste, quindi, continuano: se durante il giorno i manifestanti sfilano in marce pacifiche e cordoni umanitari, di notte è il caos. Morte e paura vengono registrate dalle dirette live dei social media, in cui si vedono spari e gas lacrimogeni lanciati da parte della polizia che prova a smobilitare i presidi. L’organizzazione Human Right Watch ha ricevuto 68 denunce di omicidi avvenuti durante lo sciopero. Dopo aver corroborato le dinamiche degli eventi, ha accertato che almeno 34 decessi si sono effettivamente verificati nel contesto dello sciopero. Il 9 giugno l’organizzazione ha inoltre presentato a Washington prove che la polizia abbia ucciso almeno 16 manifestanti: i proiettili sono stati sparati puntando ad organi vitali, come il torace e la testa, che secondo i funzionari  mostra l’intenzione della polizia di uccidere.

Diverse organizzazioni denunciano inoltre atti di paramilitarismo urbano, che sembrano essere un nuovo modus operandi dello Stato contro la protesta. Numerosi video registrati dai cittadini e dalla stampa mostrano attacchi di civili che sparano contro i manifestanti davanti agli occhi indifferenti della polizia. La procura ha avviato un’indagine contro la polizia di Cali accusata di aver permesso a numerosi civili di sostenere le azioni antisommossa.

Per provare a capire come e perché uno sciopero nazionale sia degenerato nell’anticamera di una guerra civile, è necessario considerare la storia socioeconomica di uno paese colpito da più di 60 anni di guerra, il cui tessuto sociale è profondamente lacerato dalle conseguenze del narcotraffico, corruzione e sfruttamento neo coloniale. Storicamente le aree rurali erano già quelle più vulnerabili ma dopo la pandemia di Covid-19 e le quarantene anche il precario equilibrio dei centri urbani è andato in frantumi. L’antropologo Carlos Duarte, analizzando alcuni dei processi principali che hanno contribuito a determinare la violenza dello sciopero, sottolinea le dicotomie tra ordine e diritto alla protesta; blocchi e corridoi umanitari; dialogo e guerra; economico e sociale, che hanno incendiato il dibattito pubblico abbiano finito per dividere una società già estremamente polarizzata. La speranza è quella che, per dirla con Duarte, questo sciopero nazionale diventi “un momento di inflessione comunitaria e di critica alla disuguaglianza”.

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