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Il giardino dei Cosacchi di Jan Brokken: storia dell’amicizia che salvò Dostoevskij

di Klizia Capone

San Pietroburgo, 1849. Fëdor Michajlovič Dostoevskij sta per essere fucilato da un plotone d’esecuzione. A osservare quanto accade, gli occhi del sedicenne Alexander von Wrangel. In realtà è tutta una messinscena e la pena di Dostoevskij, accusato di cospirazione contro lo Zar insieme ad altri intellettuali del gruppo di Petraševskij, viene commutata ai lavori forzati in Siberia.

È qui che lo scrittore russo e il barone di origini baltiche si incontrano dopo qualche anno. Il nobile, infatti, era stato nominato Procuratore degli affari penali e statali di Semipalatinsk, la stessa, sperduta cittadina kazaka in cui Fëdor stava scontando la sua pena, e aveva ricevuto dal fratello dello scrittore, Michail, una pila di libri, delle lettere e qualche rublo da recapitargli. Questa l’occasione del loro primo incontro.

Tra i due nasce lentamente un’amicizia che ha come luogo d’elezione di interminabili conversazioni il “Giardino dei cosacchi”, una vecchia dacia in mezzo alla steppa, ricca di “meravigliosi ranuncoli, anemoni, garofani e violaciocche” in piena fioritura. Frutto della cura di Alexander e Fëdor: quasi un miracolo per quelle latitudini (e pertanto oggetto di venerazione delle donne kirghise). Tra intime confessioni, tormenti per amori sbagliati e convegni mondani, il loro legame si fa sempre più saldo.

È in questo periodo che Dostoevskij comincia a dar forma nella propria mente ai personaggi di due tra le sue opere più importanti – Delitto e castigo e Memorie dalla casa dei morti – rielaborando le proprie esperienze fatte nei katorga siberiani e le storie raccontate da Alexander. Le rievocazioni di questi romanzi, come di altri, che l’autore russo avrebbe scritto in seguito, nel libro di Brokken sono numerose, in un continuo gioco di rimandi che tradiscono la passione dello scrittore olandese per l’opera di Dostoevskij e per tutta la letteratura russa, come lui stesso ha più volte dichiarato. 

Ne Il Giardino dei cosacchi, Jan Brokken si muove in un territorio ibrido tra romanzo, racconto storico e biografico, basandosi su memorie, lettere e documenti (conservati nel Museo Dostoevskij di San Pietroburgo, in quello di Mosca e nell’archivio Wrangel) da lui accuratamente consultati. Il lavoro svolto sui testi è alla base della narrazione, che si propaga, pagina dopo pagina, grazie alla voce di Alexander von Wrangel, l’io narrante nei panni del quale Brokken rivela di essersi calato “per penetrare più a fondo nel cuore di questa storia realmente accaduta”.

Attraverso il racconto di un’amicizia, che è il fulcro del libro e che – come sostiene Brokken – fu la salvezza di Dostoevskij e ciò che gli permise, poi, di scrivere i suoi capolavori, lo scrittore olandese ci parla anche del rapporto, mai facile, tra intellettuali e potere, dell’amore per la solitudine e del desiderio di liberarsene, degli struggimenti d’una mente creativa e inquieta, sempre in bilico tra voglia di rivoluzione e bisogno di conservazione. Lo fa con una lingua che a volte può risultare un po’ artefatta, nel tentativo, forse non sempre felice, di immergersi, insieme al lettore, nel linguaggio dell’epoca e nei luoghi in cui si svolsero le vicende narrate. Un viaggio nella letteratura, nella storia e nell’animo umano.

Perché in fondo, come afferma lo stesso Brokken, “viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per giungere a sé stessi”. 

Jan Brokken, Il giardino dei Cosacchi, traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Iperborea, 2016.

 

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