di Francesca Spanò
Dal 12 al 19 settembre Museumplein non ospita solo arte, cultura e musei. Per la 12° edizione della Homeless World Cup, infatti, la piazza più culturale di Amsterdam è diventata – con il battesimo della casa reale – un vero e proprio multi-campo di calcio con tanto di tribune, sponsor e tifoserie.
La prima edizione della manifestazione, che ogni anno si svolge in un paese diverso, si è svolta nel 2003 a Gratz, in Austria, e ha preso vita da un progetto di Mel Young, co-fondatore di The Big Issue e Harald Schmied editore della Megaphon. “L’idea è nata dopo una conferenza che si è tenuta nel 2001 a Capetown in occasione dell’International Network of Street Papers Conference“, spiega Russell Smith, dirigente marketing dell’evento.
“Erano tutti molto motivati a parlare del tema dei senza tetto e a confrontarsi l’un latro. Ma quando Mel, il mio capo, ha finito il suo discorso, si è guardato intorno e si è accorto che la sala era circondata da business man. Non c’era nessun senza tetto tra di loro“. Un incontro al bar con un amico e una birra dopo, prende vitali progetto di lanciare un evento non dedicato ai senza tetto, ma fatto dai senza tetto, sfruttando la lingua comune del calcio.
Protagonisti assoluti sono, quest’anno, giocatori e giocatrici che negli ultimi 12 mesi si sono trovati a vivere la condizione di homeless, non professionisti e provenienti da 48 diversi paesi. Scopo dell’evento non solo quello di sensibilizzare spettatori e visitatori sul tema dei senza tetto, ma soprattutto quello di offrire un supporto a una categoria sociale spesso trascurata.
Per raggiungere l’obiettivo, l’organizzazione si avvale infatti di partner in oltre 74 paesi. “Il network lavora durante tutto l’anno. Possiamo dire che la Homeless World Cup arriva solo a coronamento delle attività svolte sul campo in un tempo molto più lungo“, racconta ancora Russell.
Vivere per strada porta all’isolamento e alla conseguente incapacità di condividere, comunicare e lavorare con gli altri. Sono la partecipazione e la condivisione dentro un team – che inizia ad allenarsi già due/tre mesi prima dell’evento – a favorire l’acquisizione di un’attitudine proattiva e positiva nei confronti della vita in generale e il recupero dell’autostima. Il 94% dei giocatori, infatti, dichiara un impatto positivo della competizione sulle proprie vite.
“I ragazzi seguono un percorso che si conclude con un rito che prevede la vittoria, la sconfitta e la premiazione. Per una volta nella loro vita si sentono al centro di qualcosa più grande delle loro aspettative quotidiane. Questo di per sé è una grossa conquista“, conclude Alessandro dell’Orto, manager della squadra italiana, presente a tutte e 12 le edizioni della coppa.