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Mellow Yellow, dove più di 50 anni fa nacque la “canna libera”

Wernard Bruining è, in un certo senso, il padre dell’esperimento di tolleranza sulla cannabis: trasferitosi giovanissimo ad Amsterdam, ebbe sul finire degli anni ’60 un’intuizione: aprire un caffè dove la gente potesse comprare e consumare liberamente soft drugs. La legge, allora, non offriva questa possibilità ma in generale, le autorità della capitale erano più preoccupate dall’invasione di oppiacei provenienti dal sud-est asiatico che non dalla cannabis.

Il problema principale, infatti, non era certo la disponibilità di stupefacenti -in spazi come il Melkweg o il Paradiso, allora uno “squat”, si poteva reperire un po’ di tutto- ma il contatto con la criminalità e con il sottobosco dei consumatori-tossicodipendenti, che creava non pochi disagi a coloro che non facevano uso di queste sostanze.

Wernard era uno dei tanti giovani affascinati dalle subculture di allora. Oggi ha lasciato  il mondo dei coffeeshop che considera troppo commerciale e si è dedicato alla ricerca sull’olio estratto dalla cannabis e sulle proprietà terapeutiche della marijuana. “Con due amici, aprimmo una caffetteria perché la licenza per l’alcol era troppo costosa”, mi disse durante un’intervista.  Pur essendo ‘fuori dal giro’, il suo nome rimane un’icona e le sue storie rappresentano un patrimonio di valore inestimabile per comprendere il clima che ha permesso al pionieristico esperimento olandese sulla cannabis di nascere, sopravvivere agli anni della guerra alla droga e diventare un punto di riferimento per il movimento antiproibizionista mondiale.

Il Mellow Yellow ha aperto nel ’67 -il riferimento all’omonima traccia di Donovan era per le subculture un richiamo più che sufficiente, vista l’impossibilità di pubblicizzare i prodotti “verdi” venduti- e Wernard puntava a raccogliere soprattutto hippies ed esponenti del sottobosco controculturale che non avevano nulla a che fare con l’eroina: la sopravvivenza di questa prima esperienza, arrivata diversi anni prima che aprisse il Bulldog, è stata possibile anche grazie alla scelta di non permettere la vendita di droghe pesanti; la squadra antinarcotici della capitale, d’altronde, composta allora da appena 6 elementi, non aveva risorse per sorvegliare a tempo pieno il “coffeeshop” -nome scelto per distinguerlo dalla “koffiehuis”, la tradizionale caffetteria olandese-. Inoltre, per primi, i proprietari del Mellow Yellow azzerarono le frequenti liti nei locali tra spacciatori e clienti durante la contrattazione, gestendo loro direttamente la vendita di bustine pesate e  già confezionate.

Finalmente, a dicembre del 1976, il parlamento olandese diede il via libera alla depenalizzazione della cannabis che portò alla nascita (semi-ufficiale) dei coffeeshop; prima di allora, il magazzino era illegale -come lo è oggi- ma la vendita nel locale avrebbe potuto comportare l’incriminazione per spaccio.

La cessione, mi  raccontò Bruining, era affidata ad uno dei soci che diverse volte al giorno si presentava nel locale con una “borsa di pelle”: quando l’uomo faceva la sua comparsa, i clienti abituali sapevano che la cannabis era arrivata. Lo sapevano i clienti e dopo un po’, venne a saperlo anche la polizia: per anni, gli agenti diedero la caccia alla ormai celebre borsa di pelle ma senza successo. Wernard l’avrebbe consegnata solo a fine anni ’80 al capo della polizia di Amsterdam, ormai prossimo alla pensione.

Il locale delle origini, un club dove tutti si conoscevano, e la merce venduta -scelta con cura da una nicchia di appassionati- per una nicchia di appassionati, sarebbe stato poi travolto dall’enorme commercializzazione impressa dalla “normalizzazione” legislativa: il Primo, divenne presto uno tra i tanti.

di Massimiliano Sfregola

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