di Martina Fabiani
Nel 1952 le Nazioni Unite stabilirono che l’Eritrea sarebbe stata federata all’impero d’Etiopia, pur mantenendo una propria autonomia. Poco dopo, il governo di Addis Abeba venne meno ai patti e trasformò l’Eritrea in una semplice provincia amministrativa dell’Etiopia, per poi annetterla definitivamente. Iniziò così una guerra tra vicini di casa durata trent’anni.
Nel 1991, quando il piccolo paese dell’Africa dell’est usciva finalmente da anni di guerre per conquistarsi la sua fetta d’indipendenza, tante erano le speranze in un futuro più roseo da parte dei sei milioni di abitanti.
Due anni dopo, sotto lo scudo dell’ONU, si svolse un referendum per decidere il destino del paese: il 99% dei votanti optò per l’indipendenza, dichiarata ufficialmente il 24 maggio del 1993.
Da quel giorno il Paese è nelle mani di Isaias Afewerki e oggi, esattamente ventiquattro anni dopo, gli stessi cittadini si trovano a dover scappare da un governo repressivo.
La “Corea del Nord del Corno d’Africa” – così viene chiamata – viene definita dai suoi abitanti una “prigione a cielo aperto”. Con un presidente e un solo partito a capo del Paese, non esiste una Costituzione, né un sistema giudiziario e tantomeno la possibilità remota di una opposizione. Con la Corea condivide l’ultimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, ma di altre condivisioni nemmeno l’ombra.
Forte è la volontà del presidente Afewerki di isolare la sua gente dal resto del mondo, motivo per il quale scappare viene considerato un reato e c’è l’ordine di sparare al confine. Le poche visite autorizzate concesse ai forestieri, avvengono sotto stretto controllo e alla stampa viene negato ogni lasciapassare. Per rompere il muro del silenzio, i giornalisti spesso devono ricorrere a network o dialogare con quei rifugiati che si trovano nelle nostre terre.
Come riportato da Amnesty International, i membri delle forze di sicurezza hanno sparato ad almeno 11 civili ad Asmara, la capitale, nel mese di aprile.
In Eritrea il servizio militare è obbligatorio dall’età di 17 anni e può durare anche tutta la vita, nonostante le promesse fatte dal governo nel 2014 di porre fine a tale aberrazione. Chi diserta, rischia l’ergastolo o, peggio, la pena di morte. Scappare viene quindi vista come l’unica alternativa.
Dopo Siria e Afghanistan è dall’Eritrea che fugge il terzo più grande gruppo di persone, costrette poi ad imbarcarsi sulle coste del Mar Mediterraneo per raggiungere le sponde dell’Europa: circa 5.000 ogni mese, stando ai numeri dell’agenzia UNHCR. Quest’ultima ha registrato 17.147 richiedenti asilo eritrei in 44 paesi solo tra gennaio e luglio e il 90% di loro hanno un età compresa tra i 18 e i 24 anni.
Tra questi le prime mete scelte sono la Svizzera, la Germania e i Paesi Bassi mentre l’Italia, paese che li aveva colonizzati nel 1890 e le cui tracce sono ancora oggi visibili, il più delle volte è solo terra di passaggio.