Di Viola Zuliani
Pictures: Francesco Stancati
“Era un posto speciale e unico a Berlino. Insieme alla casa è stata spazzata via una comunità che ospitava chiunque ne avesse bisogno”, racconta Emma, una delle ultime ad aver vissuto a Liebig 34, un palazzo occupato da un collettivo anarchico-queer-transfemminista, nel cuore della capitale tedesca.
Liebig è stata sgomberata il 9 ottobre scorso, terminando così un’esperienza di occupazione durata trent’anni e lasciando senza una casa più di 40 persone. Il collettivo, negli anni, ha visto avvicendarsi molte persone che hanno seguito l’evoluzione della stessa Liebig e il suo adattarsi ai cambiamenti della società; era casa per persone cisgender, lesbiche, trans, non binarie e di etnie diverse. Spesso, ciò che avevano in comune era il fatto di essere state escluse dalla società mainstream per il solo fatto di non rispondere ai canoni stabiliti.
L’attività più importante svolta da Liebig era infatti quella dell’accoglienza:“Fino allo scorso anno avevamo una ‘stanza per gli ospiti’ pronta ad accogliere chiunque non avesse un posto dove andare”, racconta Emma, “Potevano rimanere un paio di settimane e
nel frattempo noi ci saremmo occupate di trovare qualcuno che potesse aiutarl*.” Alla porta di Liebig bussavano persone che avevano subito abusi dal proprio partner o che erano in difficoltà a causa di politiche abitative e discriminatorie sulla base di classe, etnia e orientamento sessuale.
“La casa fu occupata nel 1990, come molte altre a Berlino”, poiché dopo la caduta del Muro, c’era abbondanza di edifici vuoti. Per i primi 20 anni fu un’occupazione, poi l’attuale proprietario acquistò l’immobile dal comune. “Non ha voluto che continuassimo ad occupare, ma non era nemmeno disposto a vendere. Così abbiamo firmato un contratto per dieci anni, periodo che si è concluso nel 2018”, racconta Emma. Negli ultimi due anni, il collettivo ha cercato in tutti i modi di salvare Liebig ma alla fine ha dovuto cedere: lo scorso ottobre, 5000 agenti di polizia si sono presentati sulla soglia di casa e la storia di Liebig è finita, tra ruspe e rumore di pentole sbattute alle finestre.
Liebig era certamente un caposaldo della tradizione degli squat berlinesi e della lotta contro la gentrificazione; e un esperimento di intersezionalità: non era perfetto, anzi, come racconta Emma, il percorso è stato lungo, pieno di ostacoli e conflitti interni. “All’inizio, la casa era unicamente abitata da donne cisgender e lesbiche tendenzialmente bianche”. Non tutt* erano d’accordo ad allargare il cerchio. “Anche negli ambienti considerati di sinistra o femministi spesso si assiste a fenomeni di misoginia o omofobia. Poi, con gli anni, abbiamo deciso che non avremmo più tollerato nessuna discriminazione nei confronti di persone trans e non binarie”.
Così Liebig è diventata quello che è stata fino allo sgombero: un hausprojekt [nome che indica le occupazioni legalizzate in Germania, ndr] autogestito in cui non sono presenti uomini cisgender. Questo non perché loro se la passino sempre bene, ma perché le donne o le persone LGBTIQ+ devono affrontare oppressioni provenienti da più fronti e, spesso, non esistono luoghi dedicati esclusivamente a loro.
Le persone trans o chi fa sex work, ad esempio, vengono discriminate costantemente per il loro aspetto fisico e orientamento sessuale, o per il semplice fatto di non avere un regolare contratto di lavoro. Questo si riflette anche nella ricerca di un’abitazione: in una città gentrificata e densamente popolata come Berlino, trovare una casa può risultare impossibile e molt* sono costrett* a vivere per strada.
Oltre a essere uno spazio LGBTQ+ friendly, Liebig era aperta a
persone di tutte le etnie. Tuttavia, questo aspetto non è sempre riuscito a concretizzarsi: “Berlino è una città internazionale e Liebig rispecchiava questa diversità, però era per la maggior parte composta da persone bianche”, racconta Emma, ammettendo così le difficoltà incontrate nel tentativo di creare uno spazio che fosse riconosciuto da tutt* come punto di riferimento.
Molte organizzazioni riscontrano la stessa criticità. “Liebig ci ha aiutato a comprendere questi temi con più facilità rispetto ad altre realtà che fanno attivismo: vivendo con altre persone 24/7, hai molte più opportunità di condividere, di confrontarti, di riflettere”, dice Emma.
La sola esistenza di un luogo come Liebig rappresentava un’occasione di arricchimento per tutto il quartiere; il collettivo, infatti, ricambiava questo sentimento e considerava di primaria importanza la creazione di una comunità virtuosa nel vicinato.
Liebig era uno spazio sociale aperto a tutta la collettività e all’interno della casa venivano organizzati workshop, laboratori artistici, attività sportive. C’era anche uno spazio per i più piccoli e molte attività erano rivolte a loro. “Molti bambini sono nati e cresciuti in questa casa”, spiega Emma. “Gestivamo anche un bar e una ‘cucina per tutt*’, dove era possibile mangiare con una piccola donazione o gratis. Abbiamo poi istituito un servizio di food sharing: compravamo il cibo da diversi supermercati e lo dividevamo con il quartiere. Era uno spazio colorato e ricco di diversità.”
Riguardo al futuro delle persone che vivevano a Liebig, Emma risponde abbassando improvvisamente la voce, tra un sospiro e l’altro: “In poche ore è stato distrutto tutto quello avevamo costruito in anni di impegno”. Questa occupazione storica, insieme a tutto quello che portava con sé, è stata spazzata via dalla comunità, dal quartiere e dalla mappa di Berlino. “Per ora stiamo vivendo da qualche parte in modo provvisorio, ma il pensiero comune a tutt* è: voglio solo andare a casa”.