di Greta Melli
Difficile trovare una definizione odierna più complessa e discussa di discriminazione, soprattutto nel mercato del lavoro o in quello abitativo. Una definizione complessa e difficile da mettere a fuoco: quale candidato infatti potrebbe mai dimostrare di essere stato respinto perchè di una certa nazionalità o per il colore della sua pelle?
Uno studio condotto tra il 2015 e il 2018 e finanziato dall’Unione Europea ha cercato di portare prove empiriche sul tema, comparando 6 Stati europei: Paesi Bassi, Inghilterra, Germania, Regno Unito, Norvegia, Spagna. In Olanda i risultati hanno fatto molto discutere: è vero che i datori di lavoro preferiscono Willem ad Ahmed, anche a parità di preparazione?
“Il metodo non è nuovo: abbiamo mandato curricula fittizi ma identici tra loro a datori di lavoro, cambiando solo nome o paese di provenienza dei candidati. E, a seconda di questo dato, abbiamo ricevuto inviti diversi ai colloqui”, dice a 31mag Valentina Di Stasio, ricercatrice italiana per il Centro Europeo di Ricerca sulla Migrazione e le Relazioni Etniche di Utrecht e coautrice del lavoro.
Com’è nata l’idea di un’indagine di questo tipo?
Lo studio in realtà è lo stesso condotto ciclicamente dagli anni ‘60. Ma ecco la novità: per la prima volta lo abbiamo svolto simultaneamente in 5 paesi, con candidati provenienti dalla stessa minoranza etnica, il che permette di fare paragoni.
Nel giro di un anno e mezzo abbiamo mandato quasi 20.000 domande di lavoro fittizie; il numero è così alto perché volevamo stime il più accurate possibile.
Altra innovazione: non abbiamo solo cambiato il paese di provenienza dei candidati ma ci siamo anche concentrati su persone di seconda generazione: o sono nati e hanno qualifiche del paese in cui vivono, quindi nati e cresciuti nel paese di riferimento, oppure sono arrivati nel paese da bambini, all’età di 5 o 6 anni; possiamo quindi presumere che a livello linguistico siano praticamente dei madrelingua, e a livello di formazione e titoli di studio differenze non ci siano, perché sono stati conseguiti nel paese dello studio. Ciononostante trovano enormi difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro.
Questi trend sono stati registrati per tutti i paesi oggetto della ricerca?
Sì, in maniera diversa a seconda del gruppo etnico di origine dei candidati. Ad esempio, per il mercato del lavoro olandese si studiano spesso le minoranze turche, marocchine, surinamesi, mentre questo studio comprende anche candidati europei e mediorientali, il che permette di mettere in luce altri dati, come il rapporto dei singoli paesi con il loro passato coloniale.
E sì, troviamo discriminazione in tutti i contesti, soprattutto quello inglese, olandese e norvegese. In UK, la legge contro la discriminazione è più avanzata ma nonostante ciò, gli svantaggi sono comunque molto ampi.
I gruppi di pakistani, bengali (i più discriminati nel contesto inglese) e delle loro ex colonie, cioè come i giamaicani, continuano ad essere tuttora discriminati; i livelli sono gli stessi, e questo dato è molto preoccupante.
Ci sono state differenze molto evidenti da paese a paese?
Difficile capire come il contesto possa essere determinante. Il tasso di discriminazione minore l’abbiamo registrato in Spagna e in Germania, ma dipende dai vari gruppi presi in esame a seconda del contesto.
In tutti i 5 paesi troviamo una gerarchia dei paesi d’origine che è comunque stabile: gli europei sono trattati o alla pari dei gruppi di maggioranza o in maniera simile, quindi se sono discriminati lo sono in maniera minore; nel mezzo abbiamo i paesi dell’est-Europa, e i più svantaggiati sono quelli di origine africana o meriorientale. Difficile capire se sia dovuto a religione, colore della pelle o area di provenienza, perché sono tutti fattori molto collegati tra loro.