di Cecilia Terenzoni
Il diritto all’oblio è una questione cruciale nel dibattito odierno sulla “cyber-privacy”: la diffusione delle notizie attraverso internet, il proliferare di siti informativi, i blog oppure i siti personali di opinionisti e giornalisti, hanno reso facile l’accesso alle notizie, ma hanno anche contribuito ad una durata “eterna” delle stesse. Oggi a differenza di una volta è difficile, se non impossibile, “essere dimenticati”
Un fatto privato diventa legittimamente oggetto di cronaca quando c’è un interesse pubblico; è diritto della collettività, infatti, essere informata tempestivamente cosi da poter conoscere l’accaduto in tempo reale. Se la compressione del diritto alla privacy è inizialmente giustificata dall’esigenza di informare il pubblico su fatti nuovi, potrebbe non esserlo più dopo che la notizia risulta ampiamente acquisita.
Il diritto all’oblio, di creazione giurisprudenziale, è il diritto di un individuo ad essere dimenticato, o meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato erano stati oggetto di cronaca. L’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informarne la collettività, e con il trascorrere del tempo questo fatto cessa di essere oggetto di cronaca per rientrare nella sfera privata.
In Italia, uno dei fondamenti del diritto all’oblio va rinvenuto nell’art. 27, comma 3°, Cost.; è il principio della funzione rieducativa della pena ossia non limitata alla funzione punitiva ma anche e soprattutto volta a favorire il reinserimento sociale del condannato, la sua restituzione alla società civile. Ebbene, questo non sarebbe del tutto possibile se nella memoria collettiva rimanesse bene saldo il ricordo di quanto quel condannato ha fatto.
Quali sono i limiti di questo principio? Vi sono fatti talmente gravi per i quali, alla loro riproposizione, l’interesse pubblico non viene mai meno. Un esempio sono i crimini contro l’umanità: riconoscere ai responsabili un diritto all’oblìo sarebbe addirittura diseducativo.
A distanza di tempo puà sorgere un interesse pubblico alla riproposizione del fatto medesimo. E’ il caso di chi, essendo stato condannato per stupro anni prima, commette un’altra violenza sessuale appena uscito dal carcere. Qui, secondo molti, diventerebbe non solo legittima la diffusione della notizia relativa all’ultima violenza, ma anche la rievocazione del vecchio delitto, poiché stimolerebbe nell’opinione pubblica l’inevitabile dibattito sulla funzione rieducativa del carcere