di Chiara Canale
La lingua è uno dei mezzi di comunicazione caratteristici degli esseri umani: le parole che usiamo sono importanti perché influenzano il nostro modo di comportarci con chi ci sta intorno. “Una battuta che a me sembra buffa, per un’altra persona può essere una vera e propria micro-aggressione“, dice Vera Gheno (45), sociolinguista e traduttrice.
Oggi, dire “sindaca” quando è una donna a ricoprire l’incarico, usare l’asterisco o lo schwa invece del maschile indifferenziato, dire “persona con disabilità” invece di “handicappato” fa la differenza.
“Anche io prima dicevo ‘sono solo parole, chi se ne frega se una persona la chiami ministra o assessora’, ma poi ho battuto la testa contro la discriminazione”, dice Vera Gheno. Dopo aver intrapreso una gravidanza, infatti, la sociolinguista ha scoperto che nel mondo del lavoro una donna incinta rappresenta un problema; questa esperienza l’ha fatta riflettere e anche per questo oggi è femminista e si interessa a questioni di genere nel linguaggio.
“Spesso mi è capitato di parlare con persone non binarie o con collettivi che usavano l’asterisco nello scritto, ma nel parlato non sapevano come pronunciarlo”, dice. La proposta che ha avanzato Gheno nel suo libro Femminili Singolari, Il femminismo è nelle parole per provare a risolvere il problema è lo schwa, il cui simbolo nell’alfabeto fonetico è ɘ. L’aveva già proposto un portale chiamato Italiano Inclusivo nel 2015, ma allora non aveva avuto grande seguito.
Cosa sono l’asterisco e lo schwa e perché usarli
Le parole che usiamo sono cartine di tornasole del privilegio: se saluto un gruppo composto da 9 uomini e una donna devo dire “ciao a tutti”; a un gruppo di 9 donne e un uomo devo dire “ciao a tutti” lo stesso. È il maschile sovraesteso. Ma ad alcune persone al giorno d’oggi non sta più bene essere ignorate, per questo hanno adottato l’asterisco, la schwa e altre soluzioni, come la x, la chiocciola e la u. Il vantaggio della u è che ha una pronuncia, ma oltre a essere estranea alle nostre abitudini, in alcuni dialetti indica il maschile.
Scrivere “ciao a tuttɘ” significa specificare: so che ci sei, lì in mezzo, e ti saluto anche se sei una donna o una persona non binaria. Possiamo scrivere “Andrea è andatɘ a fare la spesa”, se Andrea non è né uomo né donna.
Vantaggi e svantaggi dello schwa
Lo schwa ha una sua pronuncia, che in italiano non c’è, ma che è presente in molti dialetti, ed è la vocale più usata in inglese. Sembra una lettera come le altre, quindi è meno fastidioso dell’asterisco. “Io l’ho buttata lì, quasi scherzosamente, senza fare degli studi scientifici né teorizzarlo”, dice Gheno, poi ad alcune persone è piaciuto e la casa editrice Effequ ha deciso di adottarlo per alcuni libri.
In realtà, Gheno non si è mai posta come grande promotrice dello schwa perché lei stessa ne vede i limiti e sostiene che non potrà mai arrivare a sistema. “Lo schwa è un po’ fighetto e hipster”, scherza, “non è nel sistema vocale italiano, nonostante ci sia nei dialetti”. Inoltre, non è presente nella tastiera del computer e genera problemi nel costruire articoli e pronomi: posso scrivere lɘi, per non scrivere lui o lei, ma sarebbe difficile da pronunciare. Al momento la strada più facile sembra quella delle circonlocuzioni, ad esempio: “buongiorno a tutte le persone presenti”.
Lo schwa forse non è ancora la soluzione, come non lo sono l’asterisco, la x, la u e la chiocciola. “Questi simboli, però, sono indicatori del fatto che ci importa, I care, tanto per citare Don Milani”. Secondo la sociolinguista, infatti, dobbiamo usarli per ribadire che sappiamo che c’è una questione legata al binarismo di genere, e se vogliamo una società giusta dobbiamo porci il problema.
La Crusca è maschilista?
Dopo aver proposto lo schwa, per alcunɘ Gheno è diventata un’eroina, per altrɘ una diabolica minaccia per la lingua italiana. Mattia Feltri ha scritto un articolo dal titolo “Allarmi siam fascistɘ”, in cui ha criticato e deriso la proposta. L’Accademia della Crusca, per cui Gheno ha lavorato in passato, ha cercato subito di distanziarsene. La Crusca, secondo la sociolinguista, nega esista un problema di binarismo di genere nella lingua e fa di tutto per non affrontare la questione, “ma se le persone iniziano a usare una soluzione, anche solo in maniera surrettizia e underground, le accademie non possono mica vietarlo”, dice.
Le lingue non sono ferme nel tempo, anzi, si modificano stando al passo con la società e spesso sono il frutto di rivendicazioni sociali. Questo è difficile da accettare: “se da ragazzino ti hanno insegnato che una cosa si fa o si dice in un certo modo”, dice Gheno, “e poi quando hai 40 anni qualcuno arriva e ti dice che si fa in un altro modo, cambiare ti sarà doloroso, ti richiederà un piccolo trauma e poi un assestamento”.
Spesso rifiutiamo i neologismi come apericena o lockdown. Il fastidio, secondo Gheno, è ancora più grande quando riguarda soluzioni linguistiche che tentano di rendere l’idea della diversità delle persone perché “il cittadino modello della nostra società è ancora uomo, bianco, eterosessuale e cisgender”, dice. Questa categoria mette ai margini le altre, che rimangono oppresse, a volte senza rendersene conto: “alcune donne vogliono essere chiamate avvocato invece di avvocata. Dicono ‘ci ho messo tanto ad arrivare fin qui, non voglio sminuire il mio titolo con il femminile’”, spiega.
Ministra, avvocata, sindaca, fonica, medica. Sentire queste parole declinate al femminile ci fa un po’ male le orecchie perché non ci siamo abituatɘ. In realtà, “medica” e “medichessa” sono forme attestate fin dal XI secolo in quanto all’epoca numerose donne esercitavano l’arte medica, come Trotula del Ruggiero e le Dame della Scuola Medica di Salerno.
Una lingua senza discriminazioni
Cosa si può fare, quindi, per migliorare una lingua che discrimina donne, persone trans, non binarie, omosessuali, con disabilità, anziane o non bianche? “Accorgersi di avere dei privilegi è difficile. Ascoltare le persone che si sentono offese o ferite, perciò, è il primo passo”, dice la sociolinguista.
In secondo luogo, secondo Gheno bisognerebbe far vedere le differenze. Gli esseri umani danno naturalmente nomi alle cose, in questo modo esse diventano più visibili e concrete, “e lo stesso avviene con le persone”, dice. Tuttavia, sostiene che sarebbe meglio non parlare di inclusività, in quanto questa presuppone che ci siano persone normali che hanno il potere di includere o escludere persone che non lo sono: “io bianca includo te che sei nero, io uomo includo te donna e ti tollero, ma proprio perché mi tocca”. Secondo Gheno, si potrebbe invece parlare di convivenza delle differenze, come ha proposto l’esperto di comunicazione e attivista Fabrizio Acanfora.
Forse non siamo prontɘ a questi stravolgimenti, “ma la società non è mai pronta”, dice Gheno, “è sempre andata così con i cambiamenti, dall’avvento della democrazia nell’antica Grecia all’arrivo di Internet nel secolo scorso, fino all’accettazione dell’omosessualità”. La presa in carico delle diversità da parte della società è l’ennesimo passo che ha colto impreparata una parte delle persone. “Io sono serena perché non penso che dare più diritti alle persone trans, ad esempio, tolga nulla a me. I diritti non sono una coperta, che se tiri da una parte scopri qualcun altrɘ”.