di Viola Santini
Silvana Arbia ha sempre svolto lavori che “non sono per donne”, così le dicevano quando, nel 1999, si è trasferita in Africa per ricoprire il ruolo di procuratrice internazionale presso il Tribunale ONU per il Ruanda (UNICTR), istituito dal Consiglio di Sicurezza. L’atrocità delle violenze nel conflitto interetnico, soprattutto contro le donne, tanto sul piano giuridico quanto su quello umano, sono state per la Corte una difficile prova da affrontare.
La ex procuratrice Arbia, dopo quasi nove anni in Africa, al suo ritorno, nel 2008, è diventata Cancelliera, Registar, della Corte Penale Internazionale (ICC o CPI) dell’Aja partecipando nel 1998, alla stesura dello Statuto di Roma.
Il Registry è la cancelleria – l’organo amministrativo – della Corte, e Arbia è stata la prima donna tra i funzionari più alti dell’organo penale. La motivazione personale che l’ha portata a candidarsi per questo ruolo è stata “l’ambizione di contribuire a dare concreta attuazione alla tutela delle vittime e dei testimoni”. Infatti, c’erano delle gravi carenze in questo campo: mancavano “nei Tribunali ad hoc, quello per il Ruanda e quello per la ex Jugoslavia, di meccanismi che consentissero alle vittime di partecipare ai processi, e ottenere riparazione e protezione”.
Silvana, dopo quasi 14 anni al servizio della giustizia internazionale, ha ottenuto un premio per la pace dal Soroptimist International of Europe e l’ha dedicato alla costituzione di una Fondazione che si occupa della sorte dei bambini soldato.
La ICC è un’istituzione relativamente giovane ed è stata fortemente criticata per il suo “focus” ristretto: la maggior parte delle indagini riguardano l’Africa. Quali sono, secondo lei, le prospettive della Corte Penale, alla luce delle critiche e delle difficoltà che ha incontrato nella sua breve vita?
La CPI è stata istituita con un Trattato internazionale, in vigore dal 2002, stipulato a Roma. A Kampala, nel 2010, ha avuto luogo la prima revisione del suo Statuto costitutivo. All’esito di questa prima Conferenza di revisione, gli Stati parte hanno affermato che la CPI è building block per la costruzione della pace nel mondo, eliminando ogni dubbio sul ruolo essenziale della giustizia nei processi di riconciliazione e di pacificazione.
La CPI è stata criticata in modo strumentale da alcuni paesi africani. In realtà, la corte ha esercitato la propria giurisdizione in paesi che hanno chiesto alla stessa di intervenire, come la Costa d’Avorio, o che sono stati sottoposta al giudizio della CPI dal Consiglio di Sicurezza delle UN, come la Libia. Le difficoltà di intervenire in alcuni paesi sono di natura oggettiva: mancanza di prove, mancanza di una effettiva cooperazione, impossibilità di svolgere indagini a causa della gravità della crisi in atto. La possibilità di modificare e o integrare lo Statuto istitutivo della CPI, anche includendo nuovi crimini di rilevanza internazionale, lo sviluppo e la promozione della giustizia riparativa, richiedono molto lavoro per gli anni a venire, soprattutto alle nuove generazioni, e, sotto tale profilo, penso che la CIP più che giovane, sia un’istituzione per i giovani.
Il suo ruolo come Registrar si focalizzava in particolare sulla protezione delle vittime e dei testimoni. Di recente, Il Tribunale Speciale per il Kosovo con sede all’Aja è stato vittima di un furto di documenti, che sta mettendo in pericolo i testimoni sotto protezione. Secondo Craig Lang “I paesi che sostengono” la Corte, ora devono aiutarla a rafforzare i suoi meccanismi di protezione dei testimoni”. Cosa ne pensa?
I dati identificativi di testimoni protetti devono essere conservati, perché la loro divulgazione può implicare gravi conseguenze per le persone interessate che rischiano di essere danneggiate e persino eliminate, per vendetta e per altre ragioni, da coloro che vogliono vanificare e intimidire le persone che in futuro saranno testimoni nei processi avanti la CPI. Per proteggere adeguatamente i testimoni e i potenziali testimoni è essenziale la cooperazione degli stati, nel mettere a disposizione sistemi di accoglienza di testimoni e relative famiglie in luoghi sicuri, e nel fornire alla Corte i mezzi finanziari necessari. I luoghi in cui i testimoni in regime di protezione e le loro famiglie vengono trasferiti devono presentare le condizioni atte a ridurre al minimo l’impatto dovuto allo spostamento, e sono preferibili paesi di accoglienza con cultura, lingua e tradizioni non incompatibili con quelle dei paesi di origine, e se questi paesi non possono sopportare i costi dell’accoglienza, altri paesi offrono sostegno finanziario. La Gran Bretagna è stato il primo paese a firmare un accordo del genere.Va anche menzionato il ruolo del Trust Fund per le vittime che svolge importanti funzioni per assistere, proteggere le vittime, ed eseguire le decisioni della Corte in materia di riparazione. Questo Fondo raccoglie donazioni volontarie e quindi tutti possono contribuire.
Lei si è occupata di genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra: situazioni in cui la categoria dei più deboli è spesso nettamente distinguibile, amplissima e, soprattutto, martoriata. Tuttavia, anche in questi contesti, ci sono dei “più deboli tra i più deboli”: penso agli stupri perpetrati in Ruanda. Perché questa strategia di umiliazione è, secondo lei, così radicata nella cultura della guerra?
Il genocidio è un crimine particolarmente grave e si può commettere anche con lo stupro se esso causa conseguenze fisiche e o psicologiche che impediscono anche solo in parte la continuazione del gruppo protetto (etnico, o razziale, o religioso o nazionale). La prima sentenza nella storia della giustizia penale internazionale sul genocidio è stata emessa dal TIPR nel 1998, nel caso Akayesu, che ha definito gli elementi costitutivi di questo crimine e le condizioni in presenza delle quali lo stupro costituisce genocidio. I crimini internazionali quali genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sono atroci anche per le modalità con cui vengono commessi e tutte le vittime sono soggetti estremamente vulnerabili. Le violenze contro le donne e, particolarmente lo stupro, nella situazione del Ruanda nel 1994 è stata, come è accaduto in passato in altre aree del mondo senza distinzioni, un’arma per colpire il nemico, umiliandolo. Particolare il comportamento di una donna, ministro per la famiglia e la protezione della donna all’epoca del genocidio, in Ruanda, Pauline Nyiramasuhuko, che incitava i miliziani a stuprare le donne Tutsi.
Per gli stessi motivi elencati sopra, perché tra tutte le cose che ha visto e tra tutte le sofferenze con cui è venuta a contatto, ha scelto di dedicarsi in particolare, con la sua Fondazione, alla questione dei bambini soldato?
Perché il primo processo portato avanti dalla CPI contro T. Lubanga Dyilo, sul crimine di guerra consistente nell’arruolamento di minori di 15 anni ed il loro coinvolgimento in operazioni militari nella regione dell’Ituri, [al confine tra RDC e Uganda, famosa per la presenza di grandi quantità di diamanti n.d.r.] mi ha consentito di conoscere i luoghi, le comunità e le vittime e ho compreso quanto grave sia l’omissione di misure atte a prevenire tale crimine. Si tratta di bambini sottratti alle loro famiglie, spesso mentre si recano a scuola, e confinati in campi militari, ove subiscono plurime forme di violenza e di abusi, dalla schiavitù sessuale, all’assunzione di droga e alla costrizione alla violenza, eseguita con le più atroci modalità. Difficile estrarli dai campi e farli ritornare a vita normale. Ogni azione che si può intraprendere per prevenire questa distruzione di giovani generazioni e questo scandalo contro la pace, deve essere posta in essere. E’ fondamentale l’educazione degli adulti e dei minori, oltre alla eliminazione di condizioni di povertà e di bisogni che favoriscono il crimine in questione, obiettivi che la Fondazione intende realizzare nella regione dei Grandi Laghi Africani, in cui il fenomeno dei bambini soldato è più diffuso.
Nella conclusione del suo libro – “Mentre il mondo stava a guardare” – dice che le stragi in Ruanda potevano essere evitate. La situazione “era sotto gli occhi di tutti”, tuttavia la comunità internazionale “è rimasta a guardare”. Secondo lei, è cambiato qualcosa, dal 1994 ad ora, nell’approccio della comunità internazionale e dell’opinione pubblica? Cosa, come comunità internazionale, rimaniamo ancora “a guardare”, senza vederlo veramente o senza agire?
Il lavoro dei Tribunali speciali, (TPIR e TPIY), ha elaborato dei precedenti [con le sue decisioni e con le sentenze emesse]: questi hanno effetti deterrenti affinché quei crimini non si ripetano, e ci aiutano a comprendere le cause ed i segnali di crisi gravi che stanno per avverarsi. Le tragedie che ho conosciuto, per la loro ampiezza, e la loro gravità non si verificano improvvisamente e imprevedibilmente, al contrario, si preparano. E, pertanto, vi sono tempi e mezzi per evitarle. L’indifferenza della comunità internazionale verso quanto accadeva in Ruanda e nella ex Jugoslavia continua a permettere che crimini internazionali gravissimi siano ancora perpetrati in non pochi paesi. La comunità è oggi ancora più colpevole, perché le lezioni del Ruanda e della ex Jugoslavia non fanno parte dei programmi educativi e culturali. Ho scritto un libro raccontando la mia esperienza di procuratore internazionale delle Nazioni Unite per il Ruanda, quanti lo hanno letto? Quanti sentono la curiosità di leggerlo? Spero in tanti perché l’ho scritto per tutti, con semplicità e sincera intenzione di abbattere i muri dell’indifferenza.