di Mara Noto
Pic: courtesy of Silvia Semenzin
Pochi giorni fa la stampa olandese ha riportato un caso di revenge porn in Marocco: una giovane donna è finita in carcere a causa di un filmato che la riprendeva intenta a fare sesso con un partner che non era suo marito. A filmare la scena è stato lo stesso uomo, che in Olanda, dove risiede, a malapena rischia una denuncia. In Marocco, dove è avvenuto il fatto, il revenge porn è un reato, ma una donna può essere arrestata per aver fatto sesso prematrimoniale.
Episodi simili di revenge porn ci sono anche in Italia. Dalla tragedia di Tiziana Cantone – vittima suicida in seguito alla condivisione di alcuni filmati privati – all’attenzione mediatica del caso di Giulia Sarti, politica del Movimento 5 stelle le cui immagini di natura privata messe in circolazione hanno portato all’accelerazione dell’iter della legge del 19 luglio 2019 n. 69, art.10 contro il revenge porn.
Con il termine revenge porn, si indica “una vendetta pornografica”. È la condivisione e diffusione illecita di immagini e/o video intimi e privati (solitamente si tratta di materiale scambiato all’interno di una relazione di fiducia) al fine di vendicarsi umiliando pubblicamente il soggetto in questione, che nella maggior parte dei casi è una donna. Un comune denominatore tra i vari scandali è l’esposizione della persona alla gogna mediatica. Questo mette in luce il persistente paradosso intorno alla sessualità femminile, ancora oggi soggetta a tabù e stigma.
Dinamiche simili di stigmatizzazione della sessualità si stanno riproducendo anche tra i social media, limitando la libertà d’espressione di tutt* coloro che non si conformano agli standard. A dicembre 2020, infatti, Instagram ha cambiato la sua politica, applicando sistematicamente lo shadow ban (letteralmente “ban ombra”), ossia oscurando, alcuni profili che trattano di sessualità.
Silvia Semenzin, ricercatrice post-doc all’Università Complutense di Madrid e da poco anche docente di Sociologia Digitale all’Università di Amsterdam, si occupa da anni di questi temi. Insieme a lei abbiamo cercato di capire meglio cosa siano il revenge porn e la censura social e come siano legati a stereotipi di genere, frutti di una cultura patriarcale che influenza anche la vita online.
Lo stigma della sessualità femminile
“Una donna vista in atteggiamenti sensuali, intenta a fare sesso o masturbarsi, è vittima di un giudizio negativo che ne distrugge la reputazione. E nel peggiore dei casi la porta a suicidarsi” afferma Semenzin.
I dati parlano chiaro: come ci racconta la ricercatrice, il 90% delle vittime di condivisione non consensuale di materiale intimo sono donne. Si tratta quindi di un fenomeno di genere. Ciò non significa che gli uomini non possano essere colpiti, semplicemente a loro capita meno, in quanto si tratta di un’arma di ricatto usata meno frequentemente dalle donne. Sarà che ci sconvolgiamo meno a vedere un uomo nudo che una donna: infatti mentre esultiamo di fronte alla virilità maschile, ci indigniamo per un capezzolo femminile.
La stessa Semenzin è rimasta scioccata, quando qualche anno fa ha visto centinaia di immagini intime, condivise in circostanze private, circolare all’interno di gruppi Telegram con oltre 60.000 iscritti. Ragazze come lei, tra cui anche amiche e conoscenti, con la propria intimità esposta al patibolo davanti ad una platea di sconosciuti.
Revenge porn, un argomento di cui si sa ancora poco
Silvia Semenzin, che ha ottenuto un dottorato con la tesi Blockchain e la giustizia digitale, ha così iniziato a fondere la sua professione di ricercatrice con un ruolo d’attivista. “Insieme alla mia collega, Lucia Bainotti, ho organizzato una conferenza con Amnesty International, rendendoci fondamentalmente conto che non c’erano dati che trattassero la violenza contro le donne online e ancora meno la condivisione non consensuale di materiale intimo. E sto parlando di appena tre anni fa” racconta Semenzin a 31mag. Mentre in Italia il caso di Tiziana Cantone aveva già scatenato molta indignazione. Dalla consapevolezza dell’inesistenza di dati che riportassero il fenomeno, passando per la campagna politica #intimitàviolata e un attivismo di tipo divulgativo, nel 2019 in Italia è stata approvata la legge secondo cui la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti è reato.
“La legge, adottata in seguito alla campagna, è nata sotto la spinta dell’opinione pubblica in seguito ad alcuni scandali: quello di Telegram e quello che ha coinvolto Giulia Sarti, politica del M5S” spiega Semenzin. Nonostante riconosca l’importante risultato, la ricercatrice precisa che la legge presenta troppe lacune, non coprendo la maggior parte dei casi.
Dalla “tecnologia della violenza” alla giustizia digitale
“È una violenza che si intreccia profondamente alla tecnologia, non si può decifrare senza capire che ruolo abbiano le piattaforme e che ruolo abbia la costruzione della maschilità all’interno di quest’ultime”, continua la ricercatrice. Le sue ricerche approfondiscono i concetti di giustizia sociale di Nancy Fraser e Amanda Keddie: una giustizia che non può prescindere da una parità dei diritti in una prospettiva intersezionale, prendendo quindi in considerazione il genere, l’etnia, le classi sociali e la disabilità.
Ma il web è una giungla, abitata da opinioni di tutti i tipi. Anni di emancipazione ed evoluzione su questioni quali la giustizia e i diritti fondamentali sono stati calpestati proprio con l’introduzione di Internet. “Bisogna ancora capire cosa sia la giustizia digitale, in modo che ci sia un ambiente rispettoso di tutte le persone“, racconta Semenzin. “È un percorso lunghissimo che necessita ancora di tanto tempo. Non avevamo neanche finito di parlare di giustizia sociale che è arrivato Internet ad amplificare tutto”.
Il web è lo specchio della nostra società patriarcale
“Purtroppo non esiste ancora un web intersezionale”, dice Semenzin. Il web è ancora centralizzato e gerarchico, fatto ad immagine e somiglianza della nostra stessa società e si adegua alle richieste di quest’ultima. Le regole per essere “social” dipendono dalla stessa piattaforma che si utilizza.
Ci sono alcuni social, come Telegram, che non moderano i contenuti e lasciano che gli utenti si “autoregolino”, diventando luogo preferenziale per la diffusione di materiale non consensuale. Facebook e Instagram, invece, hanno le loro regole. Le alternative sono poche: “O accetti o non puoi usare Instagram”, ricorda la ricercatrice. Dopo il recente cambio di policy, infatti, Instagram ha reso praticamente invisibili molti i profili per mezzo del cosiddetto shadow ban.
Ma quali tipi di profili? Tutti quelli che si occupano di sessualità e nudità femminile. “Specialmente la nudità femminile. Questo sta creando problemi alle persone che si occupano di queste tematiche facendo divulgazione sui social. Se io su Instagram scrivessi ‘Pornhub’ Instagram mi censurerebbe”, ricorda Semenzin.
Questo fa capire quanto gli algoritmi siano profondamente legati alle opinioni di chi li crea e di conseguenza quanto impatto possano avere. “Non possiamo più pensare che la tecnologia sia neutra, così come gli algoritmi. Anzi, è tutto il contrario”.
È possibile un web libero che tutela l’individuo?
L’equilibrio sta nel trovare il giusto compromesso tra un web libero, che garantisca l’anonimato con l’impossibilità di essere tracciati, e la protezione del singolo individuo, della sua privacy e della sua intimità. “Dovremmo essere noi cittadini a fare pressioni sulle istituzioni, per far regolamentare e frammentare il capitalismo digitale che sta imperando. Ma siamo ben lontani da questo obiettivo. Basta pensare alla reazione positiva che hanno avuto le persone in seguito al bando di Donald Trump da Twitter e Facebook, senza rendersi conto dello sproporzionato potere politico che queste aziende hanno”.
La soluzione, secondo Semenzin, non è smettere di usare i social media, ma essere consapevoli che non siamo i padroni di ciò che condividiamo attraverso di essi. Quindi è ora di pretendere la revisione del formato stesso di queste piattaforme, oltre a una maggiore responsabilizzazione che si basi anche su una rivendicazione femminista: parità tra uomo e donna, che dovrebbe essere alla base della società odierna, sia reale che virtuale.