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Confessione dei soldati birmani nel caso Rohingya: la battaglia si gioca in due tribunali di Den Haag

La scorsa settimana governi e organizzazioni non governative hanno collaborato per trasferire all’Aia due soldati della Birmania che avevano ammesso di aver partecipato al genocidio contro i Rohingya , scrive John Packer, un ex membro dello staff delle Nazioni Unite, attualmente professore associate di diritto e direttore del Centro di ricerca e istruzione sui diritti umani presso l’Università di Ottawa. “A l’Aia i soldati probabilmente testimonieranno in un processo davanti alla Corte criminale internazionale (ICC).”

“Queste ammissione di colpa sono degne di nota perchè sono state fatte da funzionari che hanno ammesso di aver ricevuto dai vertici l’ordine di commettere questi crimini. Le testimonianze dei due soldati saranno importanti per confermare e collegare eventi specifici, comandi e comportamenti dettagliati con le prove che esistono dalle vittime e dagli osservatori indipendenti, comprese immagini satellitari.”, prosegue Packer.

Secondo l’esperto, la specificità delle testimonianze dei soldati saranno cruciali per convincere qualsiasi tribunale – e il mondo – delle atrocità commesse in Birmania. Ma mentre questa notizia ha rapidamente catturato l’attenzione e le prime pagine dei giornali, le informazioni di per sé non sono nuove o addirittura sorprendenti – anzi, potrebbe non essere così utile per gli sforzi per aiutare materialmente i Rohingya.

Prove disponibili da tempo

“Da tempo sono disponibili prove abbondanti coerenti con le ben note tattiche del Tatmadaw (forze armate del paese). In effetti, questo ultimo sviluppo non è proprio nuovo: gli stessi due soldati hanno registrato le loro ammissioni dopo aver disertato  ed essere stati catturati a luglio dall’esercito di Arakan, un gruppo di ribelli non Rohingya nello Stato di Rakhine che combatteva contro il Tatmadaw.” spiega Packer nel pezzo “Ci sono una serie di sforzi internazionali per cercare giustizia per i Rohingya e responsabilità per i colpevoli, sia tra individui che in capo allo Stato della Birmania. Tuttavia, le basi per la giurisdizione e le prospettive dei processi ICC non sono ancora chiare.”

In teoria la Corte penale internazionale non ha giurisdizione, poiché la Birmania non ha aderito allo  Statuto di Roma, spiega Packer, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non si è mosso per deferire la situazione alla Corte penale internazionale ed è improbabile che lo faccia.

Inoltre, l’autorità concessa al pubblico ministero non copre il crimine di “genocidio”. La Corte non può perseguire nemmeno Stati o governi, solo individui. Il Myanmar, che ha costantemente respinto le accuse, farebbe sicuramente notare che i soldati a volte agiscono da soli o addirittura contrariamente agli ordini, come la Birmania ha già affermato diverse volte.

“Secondo la struttura della Corte penale internazionale, le testimonianze e le condanne non ammontano a molto da sole. È improbabile che la Birmania cambi posizione o politica e tanto meno che fornisca riparazione alle vittime”, prosegue il docente. “E se saranno condannati, i soldati quasi certamente sconteranno le loro pene in condizioni migliori di quelle in cui versano i Rohingya. Due terzi dei Rohingya presenti al mondo vivono in squallidi campi profughi e lottano per sopravvivere in posti non sono né protetti né voluti. Ad oggi il destino dei Rohingya in Birmania è incerto, così come è dubbio che tale “giustizia” soddisferà quella comunità e i molti che li difendono.”

Il ruolo della Corte internazionale di giustizia

Ma le testimonianze dei soldati potrebbero avere un effetto maggiore in un altro posto, situato dall’altra parte della città rispetto alla Corte dell’Aia. Presso la Corte internazionale di giustizia (ICJ), il Gambia ha mostrato un certo coraggio ad accusare la Birmania di genocidio e per la violazione della Convenzione. La Birmania non può sfuggire a questa azione e dovrà affrontare gravi conseguenze e risarcimenti potenzialmente sostanziali se il tribunale dovesse pronunciarsi contro di essa.

Infatti, solo sulla base dell’ordine di gennaio dell’ICJ di misure provvisorie imposte al Myanmar, la Germania ha sospeso la sua cooperazione allo sviluppo con la Birmania fino al rimpatrio dei Rohingya.

Sostegno internazionale

“Altri paesi hanno annunciato il loro sostegno all’azione del Gambia, in particolare i 57 Stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Anche Maldive, Canada e Paesi Bassi hanno recentemente annunciato la loro intenzione di intervenire a sostegno del Gambia. Vale la pena osservare che il trasferimento dei due soldati ha richiesto la cooperazione attiva di governi che ovviamente hanno un vivo interesse e una posta in gioco.”, spiega Packer.

Se da un lato, quindi l’ICC non gode di troppa stima per la scarsa giurisdizione, l’ICJ è tenuta in grande considerazione e rispetto dalla Birmania: “Sorprendentemente, la consigliera di Stato, Aung San Suu Kyi, si è recata all’Aia per “difendere l’interesse nazionale presso l’ICJ”, a nome del suo popolo e dell’esercito nazionale”. Mentre in Birmania l’ufficiale negazionismo persiste e procede sotto progetti di “sviluppo” nella terra dei Rohingya, la decisione dell’ICJ potrebbe annullarli o diminuire la loro legittimità.

“Pertanto il ruolo dei due soldati supera di gran lunga il loro status o la loro condotta personale. Le loro testimonianze potrebbero sostenere un caso contro il Myanmar stesso a livello internazionale. I funzionari del governo del Myanmar a Nay Pye Taw devono almeno essere preoccupati. Nel frattempo per i Rohingya è un ulteriore passo nella loro decennale ricerca di giustizia e di riscatto”, conclude Packer.

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