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Com’è riuscito un olandese a “rubare” il teff etiope?

Negli anni ’80 i salotti di tutto il mondo si riempivano delle immagini di bambini etiopi, emaciati e affamati a causa della carestia che aveva colpito il Paese.

Nel ricordare immagini così forti, si fa ancora fatica a credere che quello stesso Paese funestato dalla siccità sia divenuto il principale produttore del “superalimento” del futuro per il mondo occidentale. Si tratta di un cereale senza glutine, ricco di proteine, ferro e fibre, coltivato in Etiopia e in Eritrea da almeno 2.000 anni. Tanto nelle capanne degli altipiani quanto nei ristoranti raffinati di Addis Abeba il teff viene macinato in farina e usato per preparare il piatto base: l’injera. È un pane fermentato che gli etiopi mangiano almeno una volta al giorno, perfetto per accompagnare gli stufati di carne e verdure. L’injera è un pietanza molto apprezzata anche dai turisti, per la sua consistenza leggermente spugnosa e per il sapore piccante.

È difficile da credere, ma nonostante la popolarità dell’injera in tutto il Paese, il brevetto per la lavorazione della farina di teff e dei suoi derivati è finito nelle mani di un’azienda olandese.

Tutto è iniziato nel 2003. In quell’anno l’agronomo olandese Jans Roosjen ha avviato una collaborazione con l’Istituto etiope di conservazione della biodiversità per la ricerca e lo sviluppo, ricevendo grandi quantità di semi di teff. Quattro anni dopo, l’Ufficio europeo dei brevetti ha concesso una licenza alla sua azienda Health and Performance Food International (HPFI). Purtroppo Roosjen ha sovrastimato il potenziale del seme, decretando così il fallimento della sua stessa azienda. Tuttavia, non ha mai smesso di commercializzare e vendere prodotti derivati dal teff.

All’inizio di quest’anno la BBC ha realizzato un servizio sulla vicenda, dopo che Roosjen ha citato in giudizio, per violazione del brevetto, un’altra società olandese che stava commercializzando teff tostato. Tuttavia, i Paesi Bassi hanno dichiarato nulla la sua licenza con grande sollievo degli Etiopi.

Ma il brevetto di Roosjen è ancora in vigore in altre parti d’Europa e la guerra continua. A febbraio, il procuratore nazionale Berhanu Tsegaye ha espresso la sua posizione su twitter, sottolineando come il governo fosse determinato a difendere i diritti legali dell’Etiopia relativi al teff.

Non è la prima volta che l’Etiopia è chiamata a proteggere uno dei suoi prodotti tipici. Basta pensare alla vicenda di Starbucks per l’utilizzo delle tre qualità di caffè Harrar, Sidamo and Yirgacheffe, conclusasi poi con un accordo.

La dott.ssa Bula Wayessa, esperta in colture indigene, ritiene che il brevetto olandese abbia privato milioni di agricoltori etiopi dei loro diritti. “Siamo di fronte a una tipica manifestazione di potere globale in cui multinazionali milionarie mettono in atto un processo di espropriazione culturale nei paesi del Terzo Mondo“, ha affermato. “Il sistema legale internazionale andrebbe modificato. Sempre di più viene concessa alle società private la proprietà dei brevetti senza alcuna indagine approfondita e ciò colpisce in modo sproporzionato Paesi come l’Etiopia”.

Wayessa è nata in una famiglia di agricoltori in Oromia, una delle nove regioni in Etiopia. È cresciuta mangiando injera due volte al giorno e andando a coltivarla e raccoglierla dopo la scuola e durante le vacanze estive. Da quando ha lasciato la sua terra natale nel 2009 per studiare all’estero, la professoressa è tornata più volte a condurre ricerche. Per lei il teff non è solo un raccolto, ma è parte integrante del patrimonio culturale dell’Etiopia. “L’injera è un importante indicatore di identità comune in oltre 80 gruppi etnici che vivono nel Paese”, ha detto. “Inquadra la tecnologia alimentare indigena degli etiopi e informa sulle loro identità sociali e nazionali.”

La disputa sulla proprietà di teff ha raggiunto le pagine internazionali di molte testate ma non ha avuto altrettanta risonanza: Sofonias Melese, responsabile per i New Ethiopia Tours, ha detto di conoscere la questione solo perché lavora nel settore del turismo. Secondo la sua testimonianza, la maggior parte dei suoi connazionali non erano a conoscenza della vicenda. “La questione dei brevetti mi intristisce. Il teff è la spina dorsale della nostra cucina. Lo mangiamo ogni giorno – a volte tre volte al giorno – in quasi tutte le regioni e tribù”. Melese ama proporre alle persone l’injera durante i suoi tour. “La maggior parte dei nostri turisti si incuriosisce nell’assaggiarla. É divertente vedere le espressioni che si disegnano sui loro volti a causa della sua asprezza. Ma quando lo mangiano insieme al wat, che è come uno spezzatino, lo adorano”.

Diane Lyons, coautrice di uno studio etnoarcheologico sulla cottura del pane nell’Etiopia degli altipiani, ha condotto ricerche approfondite nella regione dei Tigrè settentrionale. È proprio a lei a descrivere le diverse tipologie di teff, distinguendo tra i chicchi bianchi e rossi. Il primo tipo è quello tradizionalmente considerato più prezioso. Simbolo della ricchezza, viene solitamente servito a ospiti di riguardo. L’injera rossa è più economica ed è più comunemente usata nel cibo quotidiano.

Sia Lyons che Wayessa sottolineano come il teff sia diventato un prodotto costoso per le popolazioni più povere a causa dell’aumento della domanda globale. La maggior parte degli agricoltori nel nord e nel sud dei Tigrè vendono il loro teff in cambio di maggiori quantitativi di cereali più economici, come orzo, grano e sorgo. Hanno inziato ad utilizzarli come base sostitutiva del teff per fare l’injera, causando “una grave perdita culturale e nutrizionale”, secondo Lyons.

La studiosa ha giudicato per nulla etico il processo in corso per espropriare l’Etiopia dal proprio diritto sul teff. “Questo è un Paese molto povero e lo sviluppo di tale raccolto risale a tempi molto antichi”, ha detto. “Gli Etiopi dovrebbero avere il diritto di beneficiare del suo marketing. Sono molto orgogliosi della loro cucina e hanno tutto il diritto di esserlo”.

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