Accademici a 31mag: Italia non si vanti dei nostri risultati ma efficienza non sempre è qualità

di Francesca Polo

Il botta e risposta a distanza tra la ministro Giannini e la docente italiana Roberta d’Alessandro, che ha tenuto banco sui social per tutta la settimana, è stata la scintilla che ha riacceso la discussione infinita sui “cervelli in fuga” nostrani. Se da un lato le istituzioni italiane non perdono occasione pubblica per lodare la competenza dei nostri accademici, dall’altro la kafkiana situazione che vivono le università italiane, schiacciate tra baronati e poca meritocrazia, non ha bisogno di complesse prove empiriche per essere confermata. Basterebbe citare il “casus belli” tra il ministro e la linguista: dei 30 ricercatori italiani che hanno vinto una delle borse di ricerca messe a disposizione dall’ERC (European Research Council) nel 2015, solo 13 svilupperanno il proprio progetto in Italia. Di contro, nessun vincitore straniero ha deciso di mandare avanti la propria ricerca in Italia con i fondi ricevuti. Assenza di fondi di ricerca, incertezza della carriera e della retribuzione sarebbero secondo un articolo pubblicato su uninews24.it tre delle ragioni principali per cui ricercatori italiani e internazionali opterebbero per altri Paesi.

Sembra ormai un trend senza sosta ma, a questo punto, è lecito domandarsi: giunti a destinazione come sono le cose? L’Olanda, ad esempio, è davvero un paradiso per la ricerca, rispetto all’Italia? “Qui c’è un po’ troppo controllo ed è tutto troppo burocratizzato e istituzionalizzato” dice proprio Roberta d’Alessandro a 31mag.nl. “Tutto viene controllato da diverse commissioni, ma alla fine ricevi molto aiuto ed è più facile lavorare. In Italia sei più libero ma non ci sono i soldi. Per quanto riguarda i fondi di ricerca” continua ancora la linguista “In italia si invecchia senza andare avanti, mentre in Olanda si investe sui giovani, con finanziamenti a progetto per cui si hanno spesso già borse disponibili al momento di fare domanda per fondi internazionali; si arriva quindi con un profilo forte”. Uno specchio della cultura dei due paesi, insomma, ben rappresentato dal sistema di allocazione delle risorse: “In Italia i finanziamenti sono diciamo cosi ‘a pioggia’ e ti permettono all’inizio di pagare viaggi e partecipazioni a convegni” continua D’Alessandro. “Non è tanto, ma è qualcosa. Considerando che più sei senior e più invitano gli altri, coprendoti le spese, è giusto dare questi fondi iniziali a chi ha appena finito il dottorato, questo in Italia non succede”.

Ragionamenti simili sono quelli di Davide Iannuzzi, professore ordinario di fisica sperimentale  alla Vrije Universiteit di Amsterdam, che considera punti di forza del sistema olandese la quantità di insegnamento previsto, la burocrazia accessibile e, ovviamente, lo stipendio. Ma aggiunge: “Sia l’Italia che l’Olanda possono vantare  centri di ricerca di altissimo livello”. E avverte che lasciare l’Italia, non vuol dire automaticamente assicurarsi una carriera: “Ho moltissimi colleghi in Olanda di età avanzata, con CV eccellenti anche se non sono ancora docenti di ruolo. Io stesso lo sono diventato a 36 anni”. In Olanda i fondi strutturali, tolti quelli per pagare lo staff permanente, sono piuttosto limitati. Di fatto, gran parte vengono impiegati a progetto”. Cosa comporta questo per i ricercatori? “Senza fondi a progetto”, dice ancora Iannuzzi, “non si fa nulla, almeno nel mio campo. Ovviamente, questa struttura comporta due grossi problemi. In primo luogo, noi ricercatori spendiamo molto del nostro tempo a scrivere progetti che, spesso, non verranno finanziati. Secondo, i progetti sono di breve durata, solitamente dai 3 ai 5 anni: questo schema rischia di ammazzare intuizioni “visionarie” di lunga scadenza”. E conclude: “Se non si prende il flusso giusto, si rischia di rimanere al palo e finire in una spirale che porta alla morte accademica”.

Un quadro complesso, quello descritto dai due accademici, che va oltre la ricerca del modello perfetto. Per Enzo Rossi, docente di scienze politica all’UVA, la verità sta in mezzo: “Secondo me è molto importante trovare l’equilibrio giusto tra finanziamenti a pioggia, che spesso favoriscono la mediocrità, e l’eccessivo decisionismo che molte volte porta politici e managers a creare sistemi del tipo “winner takes all”. Voglio dire che spesso i finanziamenti sono troppo concentrati, il che scoraggia i progetti rischiosi e innovativi e crea un’enorme mole di lavoro a fronte di probabilità di successo molto basse. L’ente per la ricerca olandese, per esempio, si avvale di panel di esperti accademici, quindi di una agenzia governativa che influenza le priorità della ricerca e interferisce forse più del necessario con la selezione delle idee”. E aggiunge: “La situazione varia molto da una materia all’altra. Posso dire che in diverse università italiane, pur con notevoli eccezioni,  i ricercatori non vengono incoraggiati molto a partecipare ai dibattiti internazionali o a pubblicare su riviste estere. Un’altra importante differenza è la scarsa mobilità dei ricercatori italiani: si tende a orbitare attorno all’ateneo dove si è intrapresa la carriera. In molti casi queste dinamiche incoraggiano una certa auto-referenzialità”.

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